Quando mio padre risalì i gradini, qualche istante più tardi, Hilda stava camminando lungo la strada. Aggrottando la fronte, lui si appoggiò alla balaustra e cercò il tabacco. Guardò la figura impellicciata che passava sotto un lampione dopo l’altro, lasciando una scia di nuvolette di fiato mentre il tap tap dei tacchi sul selciato diventava sempre più debole; quando svanì del tutto, lui era ancora sul ponte nell’aria fredda della notte.
Ci fu un periodo in cui eravamo felici. Mia madre era così tranquilla, così paziente; anche quando mio padre incominciò a passare tutto il suo tempo libero nell’orto o al Dog, lei non diventò mai tesa o aspra, non si trasformò mai in una bisbetica, come la maggior parte delle donne di Kitchener Street; la sua dolcezza di carattere resisteva malgrado tutto. A volte sedevamo insieme in cucina, lei e io, alla sera, e facevamo giochi d’immaginazione. C’era una grossa macchia sul soflfìtto della cucina, e il gioco consisteva nell’inventare una storia su di essa. Le mie erano sempre orribili — vedevo un nano contorto e descrivevo a mia madre nei più osceni dettagli il male commesso da questa creatura nel pieno della notte, quando la gente per bene dormiva. Mia madre, con la lana sulle ginocchia e i ferri che tintinnavano dolcemente, rabbrividiva alle mie parole. «Spider, che idea!» mormorava. «Come ha fatto a venirti in mente una cosa del genere!» Quand’era il suo turno, posava il lavoro e mi diceva che la macchia sul soffitto era un covone di fieno, o un cottage, o un carro — era cresciuta nell’Essex e non aveva mai perso l’amore per la campagna. E mentre parlava e il tintinnio dei suoi ferri riprendeva, un’espressione riposata, quasi sognante, le addolciva i lineamenti, e le oscure paure del mio racconto venivano scacciate, sostituite da un’atmosfera di tenerezza lirica, da immagini di campi e fattorie, di uccellini che cantavano nell’estate, di ragnatele nuove che scintillavano sugli olmi al sorgere del sole. Spesso mi parlava dei ragni, del modo in cui tessevano nel silenzio della notte, e di come, alla mattina presto, lei attraversava il campo e vedeva le ragnatele appese ai rami come nuvole di mussolina, anche se quando si avvicinava si trasformavano in ruote scintillanti, ciascuna con un ragno immobile al centro. Ma non erano le ragnatele che andava a vedere, diceva, perché nascosti nei cespugli più bassi, se sapevi dove guardare, si trovavano dei piccoli sacchi di seta delle dimensioni di un uovo di piccione, appesi a un ramoscello. Dentro a ogni sacchettino, raccontava, c’era una pallina di chicchi arancione tutti attaccati insieme e non più grande di un pisello — e quelle erano le uova del ragno. Aveva lavorato tutta la notte, filando dal proprio corpo la seta necessaria per tessere il sacco delle uova e il rivestimento che le manteneva calde e asciutte. E guarda, Spider, guarda com’è perfetto il suo lavoro! Non un filo fuori posto! Allora, nella mia mente, vedevo il sacchettino con le uova che pendeva dal ramoscello e, sì, era una cosa perfetta, un minuscolo bulbo di satin bianco compatto con seta nera e marrone disposta trasversalmente a larghe fasce, in disegni affusolati, in elaborate ondulazioni. Immaginavo di aprirlo e di trovarci dentro un rivestimento di ovatta e, sotto, la piccola tasca di seta in cui erano poste le uova. Ma quella che mi piaceva di più era la fine della storia. Cosa succedeva al ragno, chiedevo. Mia madre sospirava. Quando aveva finito, diceva, si dirigeva verso la sua tana, senza neanche voltarsi. Perché il lavoro era terminato, non aveva più seta, era tutto vuoto, prosciugato. Si allontana e muore. Il lavorio dei ferri riprendeva. «Metti il bollitore sul fuoco, Spider,» diceva, «che ci facciamo una bella tazza di tè.»
Ero a letto quando mio padre tornava a casa. A volte non sentivo niente; sapevo allora che era triste e silenzioso, e non rispondeva alle parole preoccupate di mia madre. Ben presto lo sentivo salire pesantemente le scale, lasciando a lei l’incombenza di controllare le luci e le porte. Altre volte rientrava a casa arrabbiato, e allora sentivo la sua voce che si alzava, le stoccate del suo sarcasmo, il tono tranquillo di mia madre che cercava di addolcirne la collera e di smussare gli acuti delle sue lamentele di ubriaco contro il mondo e contro lei stessa. Spesso la riduceva in lacrime, la maltrattava con violenza e disprezzo, e una volta, ricordo, lei corse via dalla cucina, lungo il corridoio e sulle scale, fino in camera mia, dove si abbandonò sul bordo del mio letto, mi prese la mano e singhiozzò in un fazzoletto per parecchi minuti, prima di riprendere il controllo. «Mi dispiace, Spider,» sussurrò. «A volte tuo padre mi fa tanto arrabbiare. È colpa mia… Tu mettiti a dormire, è tutto a posto, sto bene adesso.» E si chinò per baciarmi la fronte, e io le sentii l’umido delle lacrime sulla faccia. Oh, lo odiai, allora. Allora l’avrei ucciso, se avessi potuto — era squallido, quell’uomo, era morto dentro, puzzolente, marcio e defunto.
Mi sentivo meglio, molto meglio, quando chiusi il quaderno e lo rimisi sotto il linoleum. Penso che dipenda dall’aver parlato di mia madre, o almeno delle ore che ho passato solo con lei. Era diverso quando mio padre era presente; allora aleggiavano tensioni e brutti silenzi, e nessuno di noi due poteva essere davvero se stesso. Spinsi indietro la sedia, mi alzai e mi stirai. Mi sentivo davvero bene. Appoggiai le mani sul tavolo e guardai fuori dalla finestra. La pioggia era cessata, anche se alcune gocce erano ancora attaccate ai rami spogli degli alberi del parco e scintillavano alla luce dei lampioni, prima di cadere sulle foglie morte sottostanti. Una figura con un ombrello si affrettava sul selciato; da qualche parte, un cane incominciò ad abbaiare. La luna era una sottile lama gialla, e io immaginai la luce riflessa sull’oscurità gonfia del fiume un paio di chilometri più a sud. Sapevo che avrei dormito bene quella notte e che non ci sarebbe più stata quella storia del gas. Credo che sia colpa della casa — io sono un individuo sensibile, estremamente teso, e l’azienda della signora Wilkinson non è adatta per i tipi come me. L’indomani o il giorno dopo le avrei dato la notizia e mi sarei messo a cercare una sistemazione migliore. Avrei potuto addirittura abbandonare l’East End — i ricordi che suscita sono, in un certo senso, talmente fastidiosi e cupi, perlopiù, che se fossi lontano da qui forse potrei pensare al passato con maggiore distacco.
La mattina dopo, mi alzai presto, e sempre di umore eccellente. La giornata era triste e umida, e questo mi faceva piacere, perché ho sempre amato la pioggia, la nebbia e il buio. Fino al momento in cui sentii la campanella della colazione, rimasi seduto al mio tavolo fumando, guardando la cortina di nuvole e pensando a quello che avrei detto alla signora Wilkinson. Fui uno dei primi ad arrivare in cucina, quella mattina: sedetti a tavola, tamburellando con le dita, e quando le anime morte apparvero a una a una le salutai ad alta voce. Scarse risposte, naturalmente; entrarono strascicando i piedi e bofonchiando, si sedettero davanti ai porridge con gli occhi bassi. Io non riuscii a mangiare; presi invece del tè, bevendone una tazza dopo l’altra, con molto zucchero e senza latte. Le dita tamburellavano, i piedi battevano sul pavimento. Sorridevo al mondo. Annunciai alle anime morte che ben presto le avrei lasciate. Scarse risposte pure in questo caso, anche se alcuni occhi da pesce si sollevarono dalla tazza del porridge e lanciarono uno sguardo nella mia direzione. Sì, dissi loro, ben presto non avrebbero più visto il signor Cleg; avrei preso alloggio da qualche altra parte in città (rimasi vago su dove esattamente). Sì, avrei preso un appartamento: la mia residenza in solaio — indicai il soffitto — era puramente temporanea, una soluzione d’emergenza per ritrovare l’equilibrio. In Canada, dissi, ero abituato a certe comodità, un tavolo da biliardo, una biblioteca — come si poteva vivere in una casa priva di biblioteca? Bevvi dell’altro tè; mi soffermai ancora sul mio tema. Mi ero appena lanciato quando li vidi voltarsi verso la porta. La signora Wilkinson era là, in piedi con le braccia conserte. Mi zittii. «Continui, signor Cleg,» disse lei. «È molto interessante.»