E così sottoponemmo il problema a Carrington. Lui disse a McGillicuddy che d’ora in poi l’Anello Due era nostro e che dovevamo avere tutta l’assistenza richiesta. McGillicuddy cercò di dirgli che questo avrebbe ritardato di parecchie settimane l’apertura del complesso Skyfac Due. Carrington rispose, senza alzare la voce, che le addizioni e le sottrazioni sapeva farle anche lui, grazie, e McGillicuddy diventò pallido e stette zitto.
Questo devo riconoscerlo, a Carrington. Ci lasciò mano libera.
Panzarella si trasferì allo Skyfac Due con noi. Ci scarrozzarono certi tipi d’astronauti a bordo dei veicoli che, figuratevi, sembravano scope gravide. Per fortuna avevamo il dottore… Shara svenne, durante il trasferimento. Poco mancò che svenissi anch’io, e sono sicuro che ancora oggi il manico di scopa conserva l’impronta delle mie cosce… la prima volta, l’esperienza di precipitare nello spazio è spaventosa. Shara reagì magnificamente quando la riportammo al chiuso, e per fortuna non le tornò la nausea… la nausea può essere una seccatura in caduta libera, e un disastro in una tuta pressurizzata. Quando arrivarono le mie telecamere e il banco mixer, lei era di nuovo in piedi e aveva l’aria di vergognarsi un po’. E mentre io assediavo una squadra di tecnici sudati perché installassero tutto più in fretta di quanto non fosse umanamente impossibile Shara incominciò ad imparare a muoversi in gravità zero.
Dopo tre settimane eravamo pronti per la prima registrazione.
Nell’Anello Due ci avevano preparato l’alloggio e un impianto di supporto vitale ridotto al minimo, in modo che potevamo lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro, se volevamo; ma noi passavamo nello Skyfac Uno la metà delle nostre «ore libere» nominali. Ogni settimana, Shara doveva passare tre mezze giornate là con Carrington, e trascorreva gran parte del presunto periodo di riposo fuori nello spazio, con una tuta pressurizzata. All’inizio fu un tentativo voluto di vincere la paura viscerale di tutto quel vuoto. Presto diventò la sua meditazione, il suo rifugio, la sua fantasticheria artificiale, e il tentativo di ricavare dalla contemplazione dei freddi abissi neri una intuizione del significato dell’esistenza extraterrestre abbastanza vivida per poterla esprimere con la danza.
Io passavo il tempo litigando con gli ingegneri, gli elettricisti, i tecnici e un imbecille di rappresentante sindacale il quale insisteva che il secondo Salone, finito o non finito, apparteneva al futuro e ipotetico personale. Per ottenere da lui il permesso di lavorare lì mi logorai la gola e i nervi. Passavo troppe notti in uno stato di torpore anziché di sonno. Un piccolo esempio: tutte le pareti interne del maledetto Secondo Anello erano dipinte della stessa identica sfumatura di turchese… e non riuscivo a riprodurla per coprire quel dannatissimo megaschermo video nel Salone. Fu McGillicuddy a salvarmi dall’apoplessia: seguendo il suo suggerimento feci staccare il terzo strato di lattice, togliere la telecamera esterna che metteva in funzione lo schermo, portarla dentro e fissarla in modo che inquadrasse la parete interna di una stanza adiacente. E così ridiventammo amici.
Era sempre così: arrangiarsi, improvvisare, limare e verniciare. Se una telecamera si guastava, passavo le ore che avrei dovuto riservare al sonno parlando con gli ingegneri che non erano di turno, per scoprire quali dei pezzi di ricambio esistenti in magazzeno si potevano utilizzare. Sarebbe costato troppo far spedire qualcosa dall’immenso pozzo di gravità della Terra, e sulla Luna quello che mi serviva non esisteva.
Shara, comunque, lavorava anche più duramente di me. Un corpo umano deve ricondizionarsi totalmente per funzionare in condizioni d’imponderabilità: lei doveva dimenticare, letteralmente, tutto ciò che aveva saputo o imparato sulla danza, e acquisire capacità completamente nuove. Fu ancora più difficile di quanto ci aspettassimo. McGillicudy aveva avuto ragione: ciò che Shara aveva imparato durante l’anno trascorso in un sesto di gravità era un tentativo esagerato di conservare modelli terrestri di coordinazione… accantonarli completamente risultò effettivamente più facile per me.
Ma non riuscivo a starle dietro… Dovetti abbandonare l’idea di lavorare con una telecamera a mano, e basare interamente i miei piani sulle sei telecamere fisse. Fortunatamente le GLX-5000 hanno una montatura a snodo: anche dietro quei meledetti finti specchi avevo circa quaranta gradi di mobilità per ciascuna. Imparare a coordinarle simultaneamente tutte e sei sull’Hamilton Board mi fece un effetto straordinario: mi portò all’unità con la mia arte. L’ultimo, grande passo. Scoprii che potevo seguire tutti e sei i monitor con l’occhio della mente e avere una percezione quasi sferica, non dividere l’attenzione ma abbracciarli tutti, vedere come un essere a sei occhi da molte angolazioni diverse. L’occhio della mia mente diventò olografico, la mia sensibilità divenne multistrati. Incominciai a comprendere veramente, per la prima volta, la tridimensionalità.
Il problema era la quarta dimensione. Shara impiegò due giorni per rendersi conto che non poteva diventare abbastanza efficiente nelle manovre in imponderabilità per reggere un pezzo di mezz’ora nel tempo richiesto. Perciò revisionò il suo piano di lavoro, adattando la sua coreografia alle esigenze pratiche. Incluse sei giorni in condizioni di peso normale della Terra.
E anche nel suo caso, lo sforzo la portò avanti di quell’ultimo passo verso l’apoteosi.
Il lunedì della quarta settimana incominciammo a registrare Liberazione.
Inquadratura di presentazione:
Una grande scatola turchese vista dall’interno. Dimensioni sconosciute: ma il colore crea un’impressione d’immensità, di distanze immani. Contro la parete, di fondo, un pendolo oscillante attesta che si tratta di un ambiente a gravità normale: ma il pendolo oscilla così lentamente ed ha linee così essenziali che è impossibile stimarne le dimensioni e quindi estrapolare quelle dell’ambiente.
Grazie all’effetto trompe-l’oeil, la stanza sembra alquanto più piccola di quel che è in realtà quando la telecamera arretra e noi veniamo posti nella giusta prospettiva dell’apparizione di Shara, prona, inerte, a faccia in giù sul pavimento, rivolta verso di noi.
Indossa una calzamaglia beige. I capelli, d’uno splendido color mogano, sono pettinati all’indietro in una coda di cavallo che si apre a ventaglio su una scapola. Sembra che non respiri. Sembra che non sia viva.
Incomincia la musica. Il vecchio Mahavishnu, su un antiquato acusticon di nylon, stabilisce senza fretta un mi minore. Due piccole candele, nelle semplici bugie di bronzo, appaiono inserite ai due lati della camera. Sono più grandi del normale, sebbene siano piccole in confronto a Shara. Sono spente.
Il suo corpo… non ci sono parole per descriverlo. Non si muove, nel senso in cui s’intende l’attività motoria. Si potrebbe dire che vi scorre un fremito, ma il movimento si irradia dal centro verso l’esterno. È come un’onda, appunto, come se tutto il suo corpo traesse il primo respiro della vita. È viva.
I due stoppini incominciano a brillare, oh, dolcemente. La musica assume una tranquilla concitazione.
Shara solleva la testa verso di noi. I suoi occhi si fissano su qualcosa che sta al di là della telecamera e tuttavia non è l’infinito. Il suo corpo freme, ondeggia, e gli stoppini delle candele sono braci (non ci si accorge che questo ravvivarsi della luce avviene al rallentatore.)
Una contrazione violenta la fa sollevare, acquattata, e la coda di cavallo si rovescia sulla spalla. Mahavishnu inizia una cascata ciclica di note, accelerando il tempo. Lingue incerte di fiamma giallo-arancio incominciano a fiorire verso il basso dagli stoppini gemelli, mentre le braci diventano azzurre.