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I dodici giorni che seguirono furono i più duri della mia vita. Shara lavorava il doppio di me. Passava metà della giornata nello studio, parte del resto a far ginnastica in due gravità e un quarto (il massimo consentito dal dottor Panzarella) e l’altra parte nel letto di Carrington, cercando di farlo contento perché le permettesse di protrarre il tempo limite. Forse, nelle poche ore che rimanevano, dormiva. So soltanto che non aveva mai l’aria stanca, non smarriva mai la compostezza e la sua decisione ostinata. Cocciutamente, con riluttanza, il suo corpo perdeva la goffaggine, acquistava eleganza persino in un ambiente dove la grazia richiedeva una concentrazione enorme. Come un bambino impara a camminare, Shara imparava a volare.

Io incominciavo ad abituarmi all’assenza del dolore alla gamba.

Che cosa posso dirvi di Massa, se non l’avete vista? È impossibile descriverla, anche male, in termini meccanici, così com’è impossibile scrivere a parole una sinfonia. La terminologia convenzionale della danza, a causa dei suoi assunti insiti, è peggio che inutile, e se conoscete un po’ la nuova nomenclatura dovete conoscere Massa è un verbo, dalla quale i suoi assunti.

Non posso dir molto degli aspetti tecnici di Massa. Non c’erano effetti speciali: non c’era neppure la musica. Il superbo spartito di Brindle fu composto ispirandosi alla danza, e fu aggiunto alla registrazione, con il mio consenso, due anni dopo; ma il Premio Emmy lo vinsi per la versione originale, muta. Il mio contributo, a parte il montaggio e l’installazione dei due trampolini, consistette nel camuffare le batterie di sorgenti luminose ad ampia dispersione in grappoli intorno all’occhio d’ogni telecamera, e nel collegarle in modo che si energizzassero soltanto quando erano fuori campo della camera in funzione al momento… in modo che Shara fosse sempre illuminata di fronte e presentasse due ombre, non sempre congruenti. Non tentai neppure di ricorrere ad acrobazie con le telecamere: registrai semplicemente Shara che danzava, cambiando soggettiva solo quando la cambiava lei.

No, Massa è un verbo può essere descritta solo in termini simbolici, e comunque male. Posso dire che Shata dimostrava che la massa e l’inerzia possono, come la gravità, offrire il conflitto dinamico indispensabile alla danza. Posso dirvi che da esse lei distillava una specie di danza che poteva essere stata immaginata soltanto da un gruppo formato da un acrobata, un cascatore, uno scrittore e una ballerina subacquea. Posso dirvi che Shara abbatteva l’ultimo diaframma tra se stessa e la totale libertà di movimento, piegando il suo corpo alla sua volontà, e lo spazio alle sue esigenze.

E anche così, vi avrò detto ben poco. Perché Shara cercava qualcosa di più della libertà… cercava il significato. Massa era, dopotutto, un evento spirituale. Shara faceva diventare il confronto umano con l’esistenza un atto transitivo, un andare letteralmente incontro a Dio. Non voglio dire che la sua danza si rivolgeva a un Dio esteriore, a un’entità separata con o senza la barba bianca. La sua danza si rivolgeva alla realtà, dava espressione successivamente ai Tre Interrogativi Eterni formulati da ogni essere umano che mai sia vissuto.

La sua danza osservava il suo io e chiedeva: — Come sono qui?

La sua danza osservava l’universo nel quale esisteva l’io e chiedeva: — Come mai tutto questo è qui con me?

E infine, osservando il suo io in relazione all’universo: — Perché sono così sola?

E dopo aver formulato questi interrogativi, dopo averli formulati ardentemente con ogni muscolo e ogni tendine, si soffermava, librata al centro della sfera, con il corpo e l’anima spalancati all’universo: e quando non giungeva nessuna risposta, si contraeva. Non nello stesso modo drammatico di Liberazione; non era una compressione dell’energia e della tensione. Fisicamente era simile, ma era un fenomeno completamente diverso. Era una messa a fuoco interiore, un atto d’introspezione, un volgersi dell’occhio della mente (dell’anima?) verso se stesso, per cercare risposte che altrove non c’erano. Perciò anche il suo corpo sembrava ripiegarsi su se stesso, compattare la propria massa, con tanta perfezione che la sua posizione nello spazio non ne risultava turbata.

E cercando in se stessa, Shara si chiudeva su un vuoto. C’era la dissolvenza della telecamera che la lasciava sola, rigida, incapsulata, smaniosa. La danza finiva, senza dare risposta ai tre interrogativi, senza risolvere la tensione. Solo l’espressione d’attesa paziente sul suo viso smussava il filo tagliente della non-conclusione, la rendeva sopportabile: un piccolo segnale benedetto che sussurrava: — Il seguito alla prossima puntata.

Il diciottesimo giorno finimmo di registrare, nella forma grezza. Immediatamente, Shara non ci pensò più e incominciò a preparare la coreografia di Stardance, ma io passai due giornatacce al montaggio prima d’essere pronto a dare il benestare per la trasmissione. Mancavano quattro giorni alla mezz’ora in prima serata che Carrington s’era procurato… ma non era quella, la scadenza che mi ossessionava.

McGillicuddy venne nella stanza dove stavo lavorando al montaggio, e non disse una parola, sebbene vedesse le lacrime che mi scorrevano sulla faccia. Feci girare il nastro e lui guardò in silenzio, e presto incominciò a piangere anche lui. Quando il nastro aveva finito di girare ormai da un pezzo disse, a voce bassa: — Uno di questi giorni dovrò abbandonare questo lavoro schifoso.

Io tacqui.

— Facevo l’istruttore di karaté. Ero bravo. Potrei riprendere a insegnare e magari fare qualche esibizione, e guadagnare il dieci per cento di quel che guadagno adesso.

Io tacqui.

— Tutto il maledetto Anello è pieno di microfoni nascosti, Charlie. Dalla scrivania del mio ufficio si può attivare e spiare tutti i videotelefoni dello Skyfac. Quattro alla volta, anzi.

Io tacqui.

— Vi ho visti tutti e due nella camera di compensazione, quando siete rientrati l’ultima volta. Ho visto che lei è crollata. Ho visto che tu la portavi di peso. L’ho sentita quando ti ha fatto promettere di non dirlo al dottor Panzarella.

Attendevo. Incominciava a spuntare una speranza.

McGillicuddy si asciugò le lacrime. — Ero venuto ad avvertirti che stavo andando da Panzarella per riferirgli quello che ho visto. Lui convincerebbe Carrington a rimandarla immediatamente a casa.

— E adesso? — chiesi.

— Adesso ho visto la registrazione.

— E sai che probabilmente Stardance la ucciderà?

— Sì.

— E sai che dobbiamo lasciarla fare?

— Sì.

La speranza si spense. — Allora vattene e lasciami lavorare.

Se ne andò.

A Wall Street e nello Skyfac era pomeriggio inoltrato quando finii il montaggio in modo soddisfacente. Chiamai Carrington, gli dissi di aspettarmi tra mezz’ora, mi feci la doccia e la barba, mi vestii e andai.

Quando arrivai da lui era in compagnia di un maggiore del Comando Spaziale, ma non lo presentò e quindi lo ignorai. C’era anche Shara: indossava qualcosa che sembrava fatto di fumo arancione e che le lasciava scoperti i seni. Evidentemente era stato Carrington a farglielo mettere, con lo stesso spirito con cui un monello scrive parolacce oscene su un altare, ma lei lo portava con una strana dignità che, lo intuivo, doveva indispettirlo. La guardai negli occhi e sorrisi. — Salve, piccola. La registrazione è venuta bene.

— Vediamo — disse Carrington. Lui e il maggiore sedettero dietro la scrivania, e Shara sedette accanto.