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C’erano decine di sfere grigio-nerastre, così scure che le parti illuminate erano a malapena distinguibili da quelle al buio.

«Ogni sfera è approssimativamente delle dimensioni del pianeta Giove» disse Thor a testa bassa, consultando uno stampato. «La più piccola è larga 110 mila chilometri, la più grande 170 mila. Sono ammassate in un volume sferico ampio sette milioni di chilometri, circa cinque volte il diametro del Sole.»

I globi assomigliavano moltissimo a fotografie in bianco e nero di Giove, a parte la mancanza di strisce orizzontali di nuvole. I loro banchi di nuvole, o di qualunque cosa costituisse la loro superficie visibile, sembravano invece vagare dall’equatore al polo guidate semplicemente dalla convezione, il tipo di schema che ci si sarebbe aspettati da sfere quasi completamente prive di rotazione. Nello spazio tra le sfere e la nave c’era una diafana nebbia fatta di gas o di particelle, che aveva l’effetto di un velo traslucido: era certamente quella nebbia la maggior responsabile del tremolio. Visti in prospettiva, globi e nebbia davano l’impressione di cuscinetti a sfera che rotolavano in un mucchio di calze nere di seta.

«Ma come fanno a…» abbaiò Jag, e Keith capì immediatamente che cosa stava per dire. Come fanno degli oggetti grandi come pianeti a restare ammassati in uno spazio così ristretto? Tra i due più vicini c’era uno spazio di forse dieci diametri, e non più di quindici tra quelli più distanziati. Keith non riusciva a immaginare nessun tipo di orbita che potesse impedire a quei globi di collassare in un’unica massa, sotto l’effetto della loro stessa attrazione gravitazionale. Se quel raggruppamento era naturale, probabilmente era anche molto recente. Fare luce sull’argomento era servito soltanto a rendere più intricato il mistero.

4

Sulla Terra le cellule sono dotate di mitocondri per trasformare il cibo in energia, di flagelli (cioè code sferzanti, come quelle che fanno muovere gli spermatozoi) e, nei vegetali, di plastidi per immagazzinare la clorofilla. Gli antenati di questi organelli, in origine, erano creature indipendenti, che nuotavano libere. Si misero insieme accettando la simbiosi con una creatura ospite, il cui DNA è ora incastonato saldamente nel loro nucleo; alcuni di essi, tuttavia, contengono ancora tracce del proprio DNA originario.

Anche su Flatlandia antenati diversi impararono a lavorare insieme, ma su scala enormemente più grande. Ogni ib è infatti la combinazione di sette forme di vita evolute, tanto che perfino il loro nome — ib — deriva dalle parole “integrazione di bioentità”.

Le sette parti sono: il baccello,la creatura a forma di anguria che contiene la soluzione soprassatura dove vivono i cristalli del cervello principale; la pompa,ovvero la struttura digestivo-respiratoria che circonda il baccello e che assomiglia a una felpa azzurra legata intorno a una pancia verde, con le pendule braccia utilizzate sia per alimentarsi sia per liberarsi dei rifiuti; le due ruote,che sembrano cerchioni carnosi rivestiti di quarzo; il telaio,una specie di sella grigia che funge da asse per le ruote e da struttura portante per gli altri elementi; il fascio,composto da sedici spaghi color rame che di solito sono ammonticchiati davanti alla pompa, ma che possono serpeggiare all’esterno a coniando; e infine la rete,una serie di sensori simile appunto a una rete, che copre la pompa, il baccello e la parte superiore del telaio. Laddove due o più fili della rete si incrociano, c’è un occhio o un punto bioluminescente. Benché non abbiano organi specifici per il linguaggio, gli ib possiedono un udito paragonabile a quello dei cani terrestri, e accettano con spirito i nomignoli scelti per loro dai membri delle altre due razze. Il responsabile delle operazioni esterne della Starplex era Rombo, poi c’erano Fiocco di Neve, geologo anziano, Diven (abbreviazione di Diagramma di Venn), ingegnere specializzato in iperpropulsione, e infine Carro Merci… Carro Merci era il biochimico che collaborava con Rissa sul più importante progetto del mondo.

Nel 1972 un’organizzazione terrestre, il Club di Roma, aveva proclamato che esistevano ben precisi limiti allo sviluppo. Adesso, però, con tutto lo spazio a disposizione dell’umanità, non esistevano più vincoli. All’inferno il limite teorico di 2,3 figli per coppia: anche ad averne 2 x 103 a testa ci sarebbe stato spazio per tutti… genitori compresi. L’idea che i singoli individui avessero il “dovere” di morire per consentire l’avanzamento della razza, infatti, non si applicava più.

Così, Carro Merci e Rissa stavano cercando il sistema di allungare l’attesa di vita delle razze del Commonwealth. Si trattava di un problema da far tremare i polsi, perché il funzionamento stesso della vita rimaneva in gran parte un mistero. Rissa dubitava che l’enigma dell’invecchiamento sarebbe stato risolto nel corso della sua esistenza, anche se era certa che nel giro di un secolo qualcuno avrebbe trovato il bandolo della matassa. Si rendeva conto dell’ironia implicita: Clarissa Cervantes, specializzata in senescenza, apparteneva probabilmente all’ultima generazione umana che avrebbe sperimentato la morte.

La durata media della vita umana era di cento anni terrestri; i waldahudin arrivavano all’incirca a 45 anni (il fatto che fossero autosufficienti già al sesto anno di età non compensava la brevità della loro vita, tanto che alcuni umani ritenevano che fosse proprio la consapevolezza di appartenere alla razza intelligente meno longeva del Commonwealth a rendere i waldahudin così sgradevoli); i delfini arrivavano anche a ottant’anni, con cure mediche adeguate; mentre gli ib, a meno di incidenti, vivevano esattamente per 641 anni terrestri.

Rissa e Carro Merci ritenevano di avere capito perché gli ib vivessero tanto di più delle altre razze. Le cellule di umani, delfini e waldahudin avevano il limite di Hayflick: si duplicavano in modo corretto solo per un numero limitato di volte. Per ironia della sorte, erano i waldahudin ad avere il limite più elevato, circa 93 volte, ma le loro cellule (così come le creature da esse composte) avevano anche il ciclo vitale più breve. Le cellule umane e delfinesche potevano duplicarsi una cinquantina di volte. Invece, gli agglomerati di piccoli organi che costituivano i corpi degli ib (non c’era nessuna membrana protettiva che permettesse di identificarli come singole cellule) potevano rigenerarsi all’infinito. Ciò che alla fine uccideva la maggior parte degli ib era un corto circuito mentale: quando i cristalli del cervello centrale, che formavano matrici di memoria a ritmo costante, raggiungevano la massima capacità di contenere dati, l’eccesso di informazioni in arrivo faceva ingarbugliare le istruzioni inconsce che governavano respirazione e digestione.

Poiché la sua presenza sul ponte non sembrava necessaria, Rissa aveva raggiunto Carro Merci giù al laboratorio. In quel momento era seduta su una sedia e Carro Merci si trovava accanto a lei. Entrambi osservavano i dati che scorrevano sul monitor piatto poggiato in verticale sulla scrivania di fronte a loro. Il limite di Hayflick doveva per forza essere governato da qualche tipo di timer cellulare. E dal momento che era stato osservato tanto nelle cellule terrestri quanto in quelle rehbolliane, c’era la speranza di trovare una risposta confrontando le rispettive mappe genetiche. I precedenti tentativi di trovare correlazioni incrociate tra i meccanismi che stabilivano i tempi della crescita fisica, della pubertà e delle funzioni sessuali avevano tutti avuto successo. Ciò che invece causava il limite di Hayflick continuava a eluderli in modo frustrante.

Forse quell’ultimo test… forse quelle analisi statistiche sui codoni dell’RNA della telomerasi inversa… forse…

Le luci della rete di sensori di Carro Merci ammiccarono. «Mi rattrista notare che la risposta non è qui» disse la voce tradotta, che aveva la consueta intonazione britannica ed era femminile, come la metà delle voci arbitrariamente assegnate.