Un’illusione, ovviamente. Realtà virtuale. Per farlo sentire a suo agio. Forse potevano leggergli i pensieri, o forse avevano già avuto contatti con viaggiatori provenienti dalla Terra.
La scialuppa non possedeva sensori raffinati, ma lì dentro c’era aria. Sentiva addirittura… Dio, sentiva i grilli, le rane e, sì, l’ossessivo richiamo di una strolaga, tutti suoni trasmessi attraverso lo scafo della nave. Non c’era modo di analizzarla, ma non era possibile che avessero curato ogni dettaglio per poi rovinare tutto sbagliando una banalità come la miscela di gas corrispondente all’aria respirabile dagli esseri umani.
Eppure esitava. Il viaggio a Tau Ceti doveva essere un trasferimento da nulla e prima della partenza Keith non si era nemmeno preoccupato di controllare se nell’armadietto di emergenza della scialuppa ci fosse una tuta spaziale.
Quello, tuttavia, era chiaramente un invito: un invito al primo contatto. E il primo contatto era proprio ciò per cui la Starplex era stata concepita. Keith toccò una serie di comandi per scollegare le chiusure di sicurezza che impedivano l’apertura del portello posteriore della scialuppa quando era collegato a un anello di accesso. Il pannello di vetro-acciaio scivolò nel soffitto.
Keith azzardò un respiro…
E starnutì.
“Cristo” pensò “anche il polline. Questa gente è davvero in gamba.”
Respirò ancora e sentì tutti gli odori che avrebbe percepito se si fosse davvero trovato sulla Terra: erba e fiori di campo, legno umido e migliaia di altri sentori sottilmente miscelati. Avanzò di un passo.
Avevano pensato a tutto, una ricostruzione perfetta. C’erano persino le sue impronte sulla terra soffice, un elemento che quasi tutte le simulazioni di realtà virtuale trascuravano. Sentiva addirittura la consistenza del terreno attraverso le suole delle scarpe, sentiva l’elasticità dell’erba sotto i piedi, l’orlo aguzzo di una pietra. Era tutto perfetto…
Il sospetto arrivò in quel momento. Forse si trovava davvero sulla Terra. I costruttori delle scorciatoie si erano dimostrati in grado di balzare da un punto all’altro del cosmo in un batter d’occhio, e forse quello che stava vedendo era autentico. Forse era davvero a casa.
Però nel molo d’attracco non c’era una seconda scorciatoia, non aveva visto il lampo color porpora di radiazione Soderstrom. E, in ogni caso, dove diavolo avrebbero potuto trovare sulla Terra un simile angolo di natura inviolata? Alzò lo sguardo in cerca di un aereo o della scia di condensazione di uno shuttle.
Eppure… lo starnuto significava che avevano sintetizzato le giuste molecole di allergene, oppure che erano riusciti a manipolargli il cervello in maniera molto raffinata. All’improvviso Keith sentì un tuffo al cuore. Uno zoo! Un maledetto zoo e lui era uno degli esemplari in mostra. Era in trappola, prigioniero. Fece dietro front, deciso a rientrare in tutta fretta nella scialuppa, quando vide l’uomo di vetro.
«Ciao, Keith» disse. Ogni parte del suo corpo era trasparente, come se fosse stata fatta di un materiale perfettamente cristallino, che fluiva a ogni movimento. La sagoma trasparente mostrava soltanto una vaghissima traccia di colore, un tocco di fredda acquamarina.
Keith rimase muto per parecchi secondi. I tonfi del suo cuore coprivano tutti i suoni della natura. Alla fine disse: «Tu sai chi sono?»
«Più o meno» rispose l’uomo di cristallo. Aveva una voce maschile, profonda. Il corpo, benché di forma umanoide, appariva stilizzato, come i manichini delle boutique più raffinate. La testa era un ovale privo di lineamenti, con la parte più appuntita in corrispondenza del mento. Braccia e gambe, anche se ben proporzionate, erano lisce, senza traccia di muscolatura. Pancia e torace erano piatti e anche il trasparente organo sessuale era semplificato, a forma di missile.
Keith fissò l’uomo di vetro, incerto sul da farsi. Alla fine, abbandonando ogni speranza di capire, disse: «Voglio andarmene.»
«Puoi farlo» ribatté l’uomo di vetro, incrociando le braccia trasparenti. «Quando lo desideri. La tua scialuppa è pronta a prenderti a bordo.» Non c’era segno di un orifizio vocale sulla schematica testa-uovo, ma la sensazione di Keith fu che la voce provenisse da lì.
«Questo… questo è uno zoo?» chiese.
Si udì un suono simile a uno scampanellio… una risata vetrosa? «No.»
«E non sono prigioniero?»
Un altro scampanellio. «No. Sei un… la parola giusta è “ospite”. Sei mio ospite.»
«Come fai a conoscere la mia lingua?»»
«In realtà non la conosco. È il mio computatore che fa da interprete.»
«Siete stati voi a costruire le scorciatoie?»
«A costruire cosa?»
«Le scorciatoie. I passaggi interstellari, i portali cosmici o comunque li chiamiate.»
«“Scorciatoie”» ripeté l’uomo di vetro, annuendo. «Un buon nome. Sì, le abbiamo create noi.»
Il cuore di Keith accelerò. «Che cosa vuoi da me?»
Un’altra scampanellata. «Sembri sulle difensive, Keith. Non c’è qualche formula standard che dovresti usare in una situazione di primo contatto? Oppure è troppo presto?»
Troppo presto? «Be’, sì.» Keith deglutì. «Io, G. K. Lansing, direttore della Starplex, ti porgo l’amichevole saluto del Commonwealth dei Pianeti, un’associazione pacifica fra quattro razze senzienti di tre diversi pianeti.»
«Ah, così va meglio. Grazie.»
Keith si stava sforzando di accettare la situazione, l’umanoide trasparente, il paesaggio ricostruito, la bellissima astronave, il dirottamento della scialuppa. «Vorrei ancora sapere che cosa ti aspetti da me» disse infine.
L’uomo di vetro inclinò in direzione di Keith la testa priva di lineamenti. «Dunque, a rischio di apparire melodrammatico, devo dirti che è in gioco il destino dell’universo.»
Keith batté le palpebre.
«Inoltre, cosa ancora più importante» continuò l’uomo di vetro «ho bisogno di farti alcune domande. Perché tu, Keith Lansing, hai in mano non soltanto la chiave del futuro, ma anche quella del passato.»
2
Un nuovo settore di spazio… e per giunta un settore apertosi inaspettatamente. Keith e Rissa corsero verso il ponte e vi entrarono dal boccaporto laterale, il che significava passare accanto a Lianne Karendaughter. Brillante (dottorato di ricerca in ingegneria elettrica al Mit), bella (delicati lineamenti asiatici, chioma color platino trattenuta da forcine dorate) e giovane, Lianne si era unita alla Starplex appena sei settimane prima, dopo essersi distinta per l’ottimo servizio prestato come ingegnere capo su un grande incrociatore commerciale. Quando Keith le passò davanti gli fece un sorriso… un sorriso radioso, una supernova di sorriso. Keith sentì un senso di vuoto allo stomaco.
Apparentemente il ponte della Starplex non aveva né pareti né pavimento né soffitto. Era imbozzolato in un ologramma sferico che rappresentava lo spazio intorno alla nave, cosicché i computer sembravano fluttuare tra le stelle. In realtà era una stanza rettangolare, e in ciascuna parete si apriva una porta resa invisibile dal panorama cosmico. Quando Keith e Rissa aprirono quella di mezzo, facendola scorrere lateralmente, fu come se lo spazio stesso si aprisse, rivelando corridoi che lo perforavano. Apparentemente a mezz’aria, ma in realtà appesi alle pareti appena sopra le porte, c’erano terzetti di orologi luminosi che segnavano il tempo secondo le convenzioni dei tre mondi.
Keith e Rissa si affrettarono verso i loro computer, correndo apparentemente nello spazio vuoto.
I computer del ponte erano disposti in due file, ciascuna con tre postazioni. Quello del direttore si trovava al centro della seconda fila. La prima fila era costantemente occupata, mentre le postazioni posteriori venivano usate solo in caso di necessità: Jag, Keith e Rissa svolgevano la maggior parte del lavoro nei loro uffici personali. Uno dei monitor di Keith mostrava costantemente lo schema del personale autorizzato a usare le postazioni computerizzate del ponte. Nella prima fila era di turno la squadra alfa: