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Larry Niven

Stella di neutroni

I

Lo Skydiver uscì dall’iperspazio a un milione di miglia esatte dalla stella di neutroni. Mi occorse un minuto per orientarmi di nuovo sullo sfondo stellato e un altro per trovare la distorsione cui aveva accennato Sonya Laskin prima di morire. Si trovava sulla mia sinistra, ed era un’area che aveva le dimensioni apparenti della Luna della Terra. Feci virare la nave, per volgerla in quella direzione.

Stelle quagliate, stelle impasticciate, stelle che erano state rimescolate con un cucchiaio.

La stella di neutroni era al centro, naturalmente, sebbene non potessi vederla, e non avessi neppure previsto di poterla vedere. Aveva un diametro di undici miglia soltanto, ed era freddina. Era trascorso un miliardo di anni, da quando la BVS-1 aveva smesso di bruciare del fuoco della fusione. E milioni d’anni, a dir poco, dalle due settimane catastrofiche durante le quali la BVS-1 era stata una stella ai raggi X, e aveva bruciato alla temperatura di cinque miliardi di gradi Kelvin. Adesso risultava solo grazie alla sua massa.

La nave cominciò a rigirarsi da sola. Sentivo la pressione del motore a fusione. Senza collaborazione da parte mia, il mio fedele cane da guardia metallico mi stava inserendo in un’orbita iperbolica che mi avrebbe portato a meno di un miglio dalla superficie della stella di neutroni. Ventiquattro ore per scendere, ventiquattro ore per risalire… e in quell’intervallo, qualcosa avrebbe cercato di uccidermi. Come qualcosa aveva ucciso i Laskin.

Era stato lo stesso tipo di pilota automatico, con lo stesso programma, a scegliere l’orbita dei Laskin. Non aveva causato la collisione tra la loro astronave e la stella. Potevo fidarmi del pilota automatico. Potevo persino cambiarne il programma.

E avrei dovuto farlo.

Come avevo fatto a cacciarmi in quella situazione?

Il motore si spense dopo dieci minuti di manovre. La mia orbita era stabilita, e in più di un senso. Sapevo cosa sarebbe accaduto, se avessi cercato di tirarmi indietro a questo punto.

E tutto quello che avevo fatto era stato entrare in un drugstore e comprare una pila nuova per il mio accendino!

Proprio al centro del magazzino, circondato da tre piani di banchi di vendita, c’era il nuovo yacht intersistema 2603 Sinclair. Ero andato per comprare una pila, ma mi fermai ad ammirarlo. Era bellissimo, piccolo e agile e affusolato e clamorosamente diverso da tutto ciò che era stato costruito in precedenza. Non avrei voluto volarci per niente al mondo, ma dovevo riconoscere che era carino. Infilai la testa all’interno per dare un’occhiata al quadro dei comandi. Mai visti tanti quadranti. Quando tirai fuori la testa, tutti i clienti guardavano nella stessa direzione. Era sceso un silenzio impressionante.

Non posso dar loro torto, se guardavano. Nel magazzino c’erano parecchi alieni, venuti lì quasi tutti per comprare souvenir, ma anche loro guardavano sbalorditi. Un burattinaio è unico. Immaginate un centauro senza testa e con tre gambe, che porta tra le braccia due burattini di Cecil, il Serpente di Mare con il Mal di Mare, e ve ne farete un’idea. Ma le braccia sono colli flessibili, e i burattini sono teste vere, piatte e prive di cervello, con ampie labbra flessibili. Il cervello è alloggiato sotto una gobba ossea situata alla base dei colli. Il burattinaio portava addosso solo il suo vello di pelo marrone, con una criniera che si estendeva lungo tutta la spina dorsale, e formava un fitto intrico sopra il cervello. Mi hanno detto che il modo in cui portano la criniera indica la loro posizione sociale, ma per me quello poteva essere qualunque cosa, uno scaricatore di porto o un gioielliere o il presidente della General Products.

Restai a guardarlo, come tutti gli altri, mentre veniva avanti, non perché non avessi mai visto un burattinaio, ma perché c’è una certa bellezza nel modo elegante in cui si muovono su quelle zampe sottili, dagli zoccoli minuscoli. Lo guardai venire diritto verso di me, sempre più vicino. Si fermò a un passo di distanza, mi squadrò e disse: — Lei è Beowulf Shaeffer, già capo pilota delle Linee Nakamura.

La voce era bellissima, da contralto, e senz’ombra di accento. Le bocche di un burattinaio non costituiscono soltanto l’organo vocale più flessibile che vi sia in circolazione, ma anche le mani più sensibili. Le lingue sono bifide e appuntite, le labbra larghe e carnose hanno piccole appendici digitali lungo i bordi. Immaginate un fabbricante d’orologi con il senso del gusto sui polpastrelli.

Mi schiarii la gola. — Infatti.

Mi scrutò da due direzioni. — Le interesserebbe un lavoro ben retribuito?

— Un lavoro ben retribuito mi affascina.

— Io sono il nostro equivalente del presidente regionale della General Products. Venga con me, la prego, e proseguiremo la nostra discussione altrove.

Lo seguii in una cabina di traslazione. Molti occhi mi seguirono lungo l’intero tragitto. Era molto imbarazzante, venire abbordato in un drugstore da un mostro bicipite. Forse il burattinaio lo sapeva. Forse mi metteva alla prova, per vedere fino a che punto avevo bisogno di danaro.

Ne avevo un gran bisogno. Erano trascorsi otto mesi da quando le Linee Nakamura avevano chiuso baracca. Prima che questo accadesse, per diverso tempo ero vissuto da signore, sapendo che i miei stipendi arretrati avrebbero coperto i debiti. Gli stipendi arretrati non li vidi mai. Fu un grosso crollo, quello delle Linee Nakamura. Rispettabili uomini d’affari di mezza età presero a lasciare le finestre dei loro alberghi senza salvagente. Io continuai a spendere. Se mi fossi messo a vivere frugalmente, i miei creditori sarebbero andati a controllare… e io sarei finito in prigione per debiti.

Il burattinaio fece tredici numeri in fretta, con la lingua. Un attimo dopo, eravamo altrove. L’aria uscì con uno sbuffo, quando aprii lo sportello della cabina, e io deglutii per stapparmi le orecchie.

— Siamo sul tetto del palazzo della General Products. — La profonda voce di contralto mi faceva il solletico ai nervi, e dovevo ricordarmi continuamente che mi stava parlando un alieno, non una bella donna. — Lei deve esaminare quest’astronave, mentre discutiamo del suo incarico.

Uscii abbastanza cautamente: ma non era la stagione dei venti. Il tetto era al livello del terreno. È così che costruiamo su We Made It. Forse è per via dei venti che spirano a millecinquecento miglia orarie in estate e in inverno, quando l’asse di rotazione del pianeta risulta trasversale a quello del suo sole, Procione. I venti costituiscono l’unica attrazione turistica del nostro pianeta, e sarebbe una vergogna rallentarli costruendo grattacieli sul loro cammino. Il tetto di cemento, nudo e squadrato, era circondato da interminabili miglia quadrate di deserto, che non è simile ai deserti di altri mondi abitati, ma una distesa totalmente priva di vita, formata da sabbia finissima che implora di venir piantata a cactus ornamentali. Ci abbiamo provato. Il vento strappa via le piante.

L’astronave stava sulla sabbia, a qualche distanza dal tetto. Era uno scafo tipo 2 della General Products: un cilindro lungo cento metri e con sei metri di diametro, appuntito alle due estremità, con una leggera strozzatura a vitino di vespa presso la coda. Era inclinata sul fianco, con gli ammortizzatori da atterraggio ripiegati nella coda.

Avete mai notato che le astronavi cominciano a somigliarsi tutte? Un buon novanta per cento delle navi spaziali odierne viene costruito partendo da uno dei quattro scafi base della General Products. È più facile e più sicuro farle così, ma finiscono tutte come sono incominciate: tutte eguali, tutte prodotte in massa.

Gli scafi vengono consegnati trasparenti, e voi ci mettete la vernice dove preferite. Quello scafo era stato lasciato quasi tutto trasparente. Solo il muso era stato dipinto, intorno al sistema di supporto. Non c’era un motore a reazione centrale. Una serie di reattori d’assetto retrattili era stata montata lungo i fianchi, e lo scafo era crivellato di fori più piccoli, quadrati e rotondi, per gli strumenti d’osservazione. Potevo vederli, tutti luccicanti, attraverso l’involucro.