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Lei doveva aver atteso, sospesa a faccia in giù dentro una rete come la mia, senza accendere il motore: aveva atteso fino a quando la pressione era salita e la rete le era affondata nella carne, fino a che la rete s’era spezzata e l’aveva lasciata cadere nel muso della nave, dove lei era rimasta, schiacciata e stritolata, fino a che la forza incognita aveva strappato anche i sedili e glieli aveva scagliati addosso.

Accesi i giroscopi.

I giroscopi non avevano la forza sufficiente per farmi ruotare. Riprovai per tre volte. Ogni volta, l’astronave ruotava di circa cinquanta gradi e restava lì, immobile, mentre il ronzio dei giroscopi diventava sempre più acuto. Appena mollavo, la nave immediatamente scattava di nuovo in posizione. Stavo a muso in giù rispetto alla stella di neutroni, e così sarei rimasto.

Mezz’ora di discesa, e la forza incognita era superiore a un g. I miei seni nasali erano in tormento. I miei occhi erano maturi, pronti a cader fuori. Non so se sarei riuscito a sopportare una sigaretta, ma non ebbi la possibilità di fare la prova. Il pacchetto di Fortunados mi era caduto dalla tasca, quando ero piombato nel muso dell’astronave. Adesso era là, a un metro e venti dalla portata delle mie dita, a dimostrare che la forza incognita agiva su altri oggetti, oltre me. Affascinante.

Non resistetti più. Se mi faceva precipitare nella stella di neutroni, dovevo accendere il motore. E l’accesi. Aumentai la spinta fino a che mi trovai approssimativamente in condizioni d’imponderabilità. Il sangue che si era accumulato nelle mie estremità tornò dove doveva stare. L’indicatore di gravità registrava uno virgola due g. Bestemmiando, l’accusai di essere un robot bugiardo.

Il pacchetto di sigarette ballonzolava qua e là nel muso della nave, e mi venne in mente che un’altra spintarella sulla leva lo avrebbe portato da me. Ci provai. Il pacchetto fluttuò nella mia direzione, io allungai il braccio e quello, come un essere senziente, accelerò per evitare la mano protesa ad afferrarlo. Riprovai ad agguantarlo mentre mi passava accanto all’orecchio, ma anche stavolta fu troppo svelto. Quel pacchetto se ne stava andando davvero troppo in fretta, considerando che io ero praticamente in condizioni d’imponderabilità. Piombò attraverso la porta della stanza di riposo, continuando ad accelerare, e sparì nel tubo d’accesso. Dopo qualche secondo, udii un tonfo secco.

Ma era pazzesco. La forza incognita già mi attirava il sangue alla faccia. Estrassi l’accendino, allungai il braccio e lasciai la presa. Cadde dolcemente nel muso della nave. Ma il pacchetto di Fortunados era andato a sbattere con violenza, come se io l’avessi lasciato cadere dall’alto di un palazzo.

Magnifico.

Diedi un’altra spinta alla leva. Il borbottio dell’idrogeno in fusione mi ricordò che, se avessi tentato di continuare così, avrei sottoposto lo scafo della General Products al collaudo più severo della sua storia: mandarlo a sbattere contro una stella di neutroni a una velocità pari alla metà di quella della luce. Tirai indietro la leva. La perdita d’energia mi scagliò violentemente in avanti, ma io tenni la faccia girata. L’accendino rallentò ed esitò, all’entrata del tubo di accesso. Poi decise di passare. Tesi l’orecchio per captare il tonfo, e poi sussultai, quando tutta la nave echeggiò come un gong.

E l’accelerometro era esattamente al centro della massa dell’astronave. Altrimenti, la massa stessa avrebbe sbilanciato l’ago. I burattinai erano famosi per la loro precisione fino al decimo decimale.

Onorai il dittafono di alcuni commenti frettolosi, poi mi misi all’opera per riprogrammare il pilota automatico. Per fortuna, quel che volevo era semplice. La forza incognita continuava a essere una forza incognita, ma adesso sapevo come si comportava. Forse ce l’avrei fatta a uscirne vivo.

Le stelle erano rabbiosamente azzurre, deformate in linee striate, nei pressi di quel punto particolare. Mi sembrava di poterlo vedere, adesso, piccolissimo, rosso e fioco; ma forse erano uno scherzo dell’immaginazione. Tra venti minuti, sarei girato intorno alla stella di neutroni. Dietro di me, il motore brontolava. In effettive condizioni d’imponderabilità, slacciai la rete di sicurezza e mi spinsi via dal sedile.

Una spinta delicata verso prua, e mani fantasma mi afferrarono le gambe. Cinque chili di peso mi pendevano dalle dita, dalla spalliera del sedile. La pressione sarebbe dovuta scendere in fretta. Avevo programmato il pilota automatico perché riducesse la spinta da due g a zero entro due minuti. Dovevo soltanto trovarmi al centro della massa, nel tubo di accesso, quando la spinta fosse caduta a zero.

Qualcosa stringeva la nave attraverso uno scafo della General Products. Una forma di vita psicocinetica, sperduta su un sole dal diametro di dodici miglia? Ma come poteva resistere a una simile gravità, un essere vivente?

Poteva essere qualcosa sperduto in orbita. Nello spazio c’è vita: gli outsiders e i semi-a-vela e forse anche altri che non abbiamo ancora scoperto. Per quel che ne sapevo, poteva essere viva anche la BVS-1. Non aveva importanza. Sapevo cosa cercava di fare la forza incognita. Cercava di fare a pezzi la nave.

Non sentivo nessuna attrazione sulle dita. Mi spinsi verso poppa e andai a finire contro la parete di fondo, con le gambe piegate. Mi inginocchiai sopra la porta, guardando giù, verso poppa. Quando arrivò l’imponderabilità, mi trascinai oltre e mi trovai nella stanza di riposo, a guardare in basso, verso il muso.

La gravità cambiava molto più in fretta di quanto mi andasse a genio. La forza incognita cresceva con l’avvicinarsi dell’ora zero, mentre la spinta compensatrice del reattore diminuiva. La forza incognita tendeva a fare a pezzi l’astronave: era due g in avanti nel muso, due g all’indietro nella coda, e diminuiva fino a zero al centro della massa. Almeno, così speravo io. Il pacchetto di sigarette e l’accendino si erano comportati come se la forza che li tirava crescesse a ogni centimetro, mentre si spostavano verso poppa.

Il dittafono era quindici metri più in basso, assolutamente irraggiungibile. Se avevo altro da dire alla General Products, avrei dovuto dirlo personalmente. Forse avrei potuto farlo. Perché sapevo qual era la forza che cercava di fare a pezzi la nave.

Era la marea.

Il motore si era spento, e io mi trovavo nel punto centrale della nave. Cominciavo a sentirmi scomodo, in quella posizione, a braccia e gambe aperte. Tra quattro minuti avrei raggiunto il perielio.

Qualcosa scricchiolò nella cabina, sotto di me. Non potevo vedere cosa fosse, ma potevo vedere chiaramente un punto rosso che brillava tra linee radiali azzurre, conte una lanterna in fondo a un pozzo. Ai lati, tra il tubo di fusione e i serbatoi e il resto del macchinario, le stelle azzurre mi fissavano sfolgorando d’una luce quasi violetta. Non osavo guardarle troppo a lungo. Ero convinto che avrebbero potuto accecarmi.

Dovevano esservi centinaia di gravità, nella cabina. Sentivo addirittura il cambiamento della pressione. L’aria era rarefatta, a quell’altezza, cinquanta metri al di sopra della cabina di comando.

E poi, quasi da un momento all’altro, il punto rosso diventò qualcosa più di un punto. Il mio tempo era scaduto. Un disco rosso balzò verso di me; l’astronave mi girò intorno; e io soffocai un gemito e chiusi gli occhi. Mani gigantesche mi afferrarono le braccia e le gambe e la testa, delicatamente ma con immensa fermezza, e cercarono di schiantarmi in due. In quel momento pensai che Peter Laskin era morto così. Aveva avuto le mie stesse intuizioni, e aveva cercato di nascondersi nel tubo d’accesso. Ma era scivolato. Come stavo scivolando io.