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— Ah, davvero? Eppure mi dicono che sia molto apprezzato.

Non potei proprio fare a meno di indignarmi all’idea che qualcuno avesse potuto sia pur soltanto pensare che quell’asino di Trowbridge fosse adatto a sostenere una parte per cui andavo bene io. — Quello sbracciato! quell’ampolloso! — esclamai, per interrompermi però subito, pensando che era molto più dignitoso ignorare certi colleghi… ammesso che si possa chiamarli colleghi. Ma quel pappagallo era talmente pieno di sé che… be’, se doveva baciare la mano di una dama, Trowbridge faceva solo finta, e si baciava il pollice. Un narcisista, una posa, una doppia finzione. Come poteva vivere un personaggio, uno come lui?

Eppure, l’ingiustizia della sorte è tanto profonda che i gesti esagerati e la retorica di Trowbridge rendevano bene, mentre i veri artisti facevano la fame.

— Dak, non riesco a capire come abbiate potuto pensare a lui.

— Be’, non proprio. Ha un contratto per una lunga serie di recite, e la sua assenza si noterebbe subito; farebbe sorgere un mucchio di domande. Ma per fortuna abbiamo trovato lei che era… ehm, "senza impegni". Appena lei ha accettato il lavoro, ho detto a Jacques di comunicare all’altro gruppo di sospendere i tentativi d’entrare in contatto con Trowbridge.

— Vorrei ben credere!

— Però… senta, Lorenzo, voglio essere chiaro. Mentre lei era occupato a rimettere il pranzo di ieri, appena spenti i motori, ho chiamato la Passa al primo turno! perché avvertano giù di riprendere i contatti con Trowbridge.

— Cosa?

— Mi ha costretto lei, amico. Vede, quando uno di noi accetta di portare una carretta su Ganimede, vuol dire che quella carretta, su Ganimede, la porta… oppure che muore per portarcela; non perdiamo i nervi cercando di "svicolare" mentre viene fatto il carico. Lei ha detto che accettava il lavoro: punto e basta. Niente "se", "ma", "però". Poi poco più tardi, a causa di un po’ trambusto, lei ha una crisi di nervi. Ancora più tardi, al Campo, lei cerca di darmi il blu. E solo dieci minuti fa, è tutto un pianto per ritornare su terrasporca. Lei sarà forse più bravo di Trowbridge come attore. Non lo so. Io so solamente che abbiamo bisogno di un uomo su cui si possa contare, che non perda i nervi quando si arriva al dunque. E mi dicono che Trowbridge è uno su cui si può contare. Così, adesso, se riusciamo ad avere Trowbridge, prendiamo lui; diamo a lei il benservito, non le diamo altre informazioni, la rimandiamo indietro. Capito?

Capivo fin troppo bene. Dak non l’aveva detto, e forse non ne sapeva neppure il significato esatto, ma mi faceva capire che non ero un vero attore. E il peggio è che aveva ragione. Non avevo ragione d’arrabbiarmi: potevo solo arrossire di vergogna. Ero stato un idiota ad accettare il contratto senza informarmi meglio, però avevo accettato, senza porre condizioni o comode scappatoie. E adesso cercavo di tirarmi indietro come un filodrammatico preso dal panico alla prima recita.

"Lo spettacolo deve continuare" è il più antico motto della gente di teatro. Forse non contiene nessuna verità filosofica, ma ben di rado le cose che gli uomini vivono possono venire dimostrate in base alla logica. Mio padre ci aveva creduto… l’avevo visto recitare per due atti con l’appendice perforata, e inchinarsi ancora agli applausi, prima di lasciarsi condurre all’ospedale. E ora mi pareva di vederlo davanti a me, con il viso atteggiato al sommo disprezzo dei veri professionisti per l’attorucolo disposto a lasciare il pubblico a bocca asciutta.

— Dak — dissi umilmente — mi dispiace. Ho agito male.

Lui mi lanciò un’occhiata penetrante. — Accetta il lavoro?

— Sì — risposi, ed ero sincero. Ma subito mi venne in mente un particolare che m’avrebbe impedito di recitare la parte, come se si fosse trattato d’impersonare Biancaneve nei Sette nani.

— Sì — ripetei. — Cioè… mi piacerebbe. Ma…

— "Ma" cosa? — domandò lui con profondo disprezzo. — Un altro di quei suoi maledetti capricci?

— No, no! Però mi ha detto che si va su Marte… Dak, dovrò fare questo lavoro di sostituzione in mezzo ai marziani?

— Eh?… Certo. Chi vuole che ci sia, su Marte?

— Già… Ma, Dak… io proprio non li posso sopportare! Mi fanno venire la tremarella. Mi sforzerò come posso… cercherò di resistere, ma la sostituzione potrebbe far fiasco.

— Ah, se si preoccupa solo di questo, lasci perdere.

— Come posso lasciar perdere? Non posso far a meno di provare ribrezzo.

— Le ho detto di lasciar perdere. Senta, amico, sappiamo già benissimo che lei è bifolco su tante cose. Sappiamo tutto, di lei. Lorenzo, il suo ribrezzo per i marziani è una cosa puerile e irragionevole come la paura dei ragni o dei serpenti. Noi ne abbiamo già tenuto conto, e prenderemo i provvedimenti del caso. Quindi, le ripeto per la terza volta: lasci perdere.

— Be’… allora… — Non mi sentivo molto convinto, ma le sue parole mi avevano punto sul vivo. "Bifolco"… Ma come!? I bifolchi sono il pubblico! Così mi guardai bene dall’insistere.

Dak prese il laringofono, senza preoccuparsi d’infilare la bocca nella mascherina antifonica. — Dente di Leone a Ranuncolo. Dente di Leone a Ranuncolo. Annullare il piano Macchia d’inchiostro. Proseguiamo con Mardi Gras.

— Dak — lo chiamai mentre dava il segnale di chiusura.

— Più tardi… — mi rispose. — Devo mettermi sulla loro orbita. È probabile che il contatto sarà un pochino rude, perché non posso perder tempo a controllare al millesimo. Quindi stia zitto e si tenga forte.

Non aveva torto: fu davvero rude. Quando ci fummo finalmente trasferiti sulla nave torcia, fui lieto di tornare alla cara vecchia caduta libera; gli scrolloni dell’attracco sono perfino peggiori del vecchio, caro mal di spazio. Non restammo più di cinque minuti in caduta libera. I tre uomini che dovevano tornare a terra sulla Puoi farcela si pigiarono nella cabina pressurizzata mentre noi fluttuavamo a bordo della Passa al primo turno! Seguì qualche momento di gran confusione per me. Credo proprio di essere un terricolo fino all’osso, se mi disoriento con tanta facilità quando non distinguo il soffitto dal pavimento. Qualcuno gridò: — Dov’è? — Un altro rispose: — Eccolo! — (era la voce di Dak, questa). Poi la voce che aveva parlato per prima esclamò: — Lui? — come se non credesse ai propri occhi.

— Sì, sì! — ripeté Dak. — Adesso è truccato… Lascia perdere, è tutto a posto. Dammi una mano a metterlo sotto torchio.

Una mano mi afferrò per il braccio e mi trascinò lungo uno stretto passaggio fino a una cabina. Contro una parete c’erano due cuccette d’alta accelerazione, i "torchi per olio", a forma di vasca da bagno: cuscini idraulici a pressione uniforme, in uso sulle navi torcia. Non ne avevo mai visto uno prima, ma li conoscevo già approssimativamente, perché ne avevamo usato delle perfette imitazioni nel dramma spaziale I commando di Terra 1.

Sulla parete, dietro le cuccette, c’era scritto con la matita rossa: ATTENZIONE — Vietato usare torchi a più di 3 g senza tuta — Ordine di… La scritta ruotò lentamente fuori del mio campo visivo prima che riuscissi a leggerla tutta, e qualcuno mi spinse dentro il "torchio". Dak e un altro erano intenti a legarmi febbrilmente con le cinture di sicurezza quando un campanello si mise a suonare orribilmente, poco lontano. Continuò per diversi secondi, poi smise; una voce disse: — Avviso! Due g! Tre minuti! Avviso! Due g! Tre minuti! - Poi il campanello riprese a suonare.

In tutto quel baccano, sentii la voce di Dak domandare in tono insistente: — Il proiettore è a posto? I nastri sono pronti?