Questo piccolo gruppo conosceva sicuramente la situazione; forse anche altri ne erano al corrente, ma evidentemente nessuno ritenne necessario informarmene. In effetti, gli altri funzionari del quartier generale di Bonforte, e così pure l’equipaggio della Tom Paine, si erano accorti che stava succedendo qualcosa di strano, ma non c’era bisogno che sapessero con esattezza la natura della situazione. Molti mi avevano visto salire sull’astronave, ma sotto le spoglie di "Benny Grey". Quando mi rividero ero già "Bonforte".
Qualcuno aveva avuto la buona idea di procurarsi una scatola di cosmetici veramente adatti alla mia professione, tuttavia ne feci pochissimo uso. Da vicino, infatti, il trucco si nota; anche il Silicoderm, visto a breve distanza, rivela un tessuto diverso da quello della pelle vera. Mi limitai quindi a scurirmi la carnagione con un paio di passate di Semiperm, e ad assumere le espressioni del mio personaggio interiormente. Dovetti purtroppo sacrificare molti capelli, e il professor Capek ne inibì le radici. Non fu un gran danno, perché un attore può sempre ricorrere ai posticci, e poi avevo la certezza che quel lavoro m’avrebbe procurato un compenso sufficiente a ritirarmi dalle scene, sempre che l’avessi voluto, per il resto della mia vita.
D’altra parte mi veniva spesso in mente la spiacevole sensazione che "il resto della mia vita" poteva anche non durare molto… ci sono certi vecchi proverbi sull’uomo che sapeva troppo e sul fatto che i morti non parlano. Ma confesso che cominciavo a nutrire una certa fiducia nei riguardi dei miei compagni. Era tutta gente terribilmente simpatica, e ciò era altrettanto rivelatore, sulla personalità di Bonforte, quanto le registrazioni dei suoi discorsi o le sue riprese stereovisive. Stavo imparando che un personaggio politico non è una singola persona, ma è una squadra di persone che collaborano strettamente tra loro. Se lo stesso Bonforte non fosse stato una brava persona, non si sarebbe circondato di collaboratori come i suoi.
I maggiori grattacapi me li procurò la lingua marziana. Come tutti gli attori, anch’io avevo un’infarinatura di marziano, venusiano, gioviano esterno ecc, tanto da riuscire a imitarne i suoni sul palcoscenico o davanti a una macchina da presa. Ma quelle consonanti arrotate o vibrate sono molto difficili da pronunciare. Le corde vocali umane non hanno la versatilità delle membrane acustiche dei marziani, credo, e inoltre la scrittura fonetica di quei suoni per mezzo dell’alfabeto latino, per esempio "kkk" o "jjj" o ancora "rrr", non corrisponde assolutamente al loro vero suono, non più di quanto la "gh" di "gnu" corrisponda all’occlusiva velare con cui la parola "gnu" viene pronunciata da un bantù. Per esempio "jjj" suona come una via di mezzo tra il miagolio d’un gatto e la parola "ciao" pronunciata col birignao.
Per mia fortuna Bonforte non aveva spiccate attitudini per le lingue, e inoltre non dimentichiamo che io sono un attore espertissimo in fatto d’imitazioni. Ho l’orecchio allenato ad afferrare i suoni, e con un minimo di prove sono poi in grado d’imitarli tutti, dal rumore di una sega circolare contro un chiodo piantato nel legno, al chiocciare d’una gallina disturbata mentre cova. Mi bastò quindi imparare il marziano quel tanto (o quel poco) che lo conosceva Bonforte. Bonforte si era dato da fare alacremente per imparare meglio la lingua, e tutte le parole e le frasi che conosceva erano state registrate e analizzate sull’oscilloscopio differenziale per fargli notare i difetti.
Mi misi quindi a studiare i suoi errori e le sue imperfezioni di pronuncia; il proiettore venne trasferito nel suo ufficio e Penny rimase al mio fianco per scegliere le bobine e per rispondere alle mie domande.
Le lingue parlate dagli uomini appartengono a quattro gruppi: flessive, come l’inglese o l’italiano, posizionali, come il cinese, agglutinanti, come l’arabo, polisintetiche (a frasi unitarie) come l’eschimese. Oggi, naturalmente, a queste strutture linguistiche umane occorre aggiungere quelle d’origine extraterrestre, che possono arrivare ad essere strane, quasi impossibili per la mente umana come il venusiano, che è non ripetitivo o emergente. Ma per fortuna il marziano è ancora abbastanza vicino alle forme linguistiche umane. Il marziano elementare, usato nei commerci interplanetari, è una lingua posizionale e comprende solo concetti semplici e ostensivi come ad esempio il loro saluto: "Ti vedo". L’alto marziano, invece, è una lingua polisintetica e molto formalizzata, con un’espressione diversa per ciascuna minuscola sfumatura del loro complesso sistema di premi e castighi, d’obblighi e di debiti. L’alto marziano era risultato troppo difficile perfino per Bonforte: Penny mi disse che riusciva a leggere piuttosto speditamente quelle file di puntini che usano come linguaggio scritto, ma che conosceva soltanto poche centinaia di frasi del linguaggio parlato.
Ragazzi, come mi misi a studiarle!
Anche per Penny la cosa non fu facile: dovette assoggettarsi a una fatica pari, se non superiore, alla mia. Sia lei che Dak parlavano abbastanza bene il marziano, ma fu lei a farmi da maestra per la maggior parte del tempo, perché Dak era continuamente richiesto in sala comando: con la morte di Jacques Dubois era rimasto senza il suo braccio destro. Quando mancarono pochi milioni di chilometri all’arrivo, passammo di nuovo da 2 g a una, e per tutto quel periodo Dak non scese mai a farci visita. Quanto a me, trascorsi l’ultima parte del viaggio a imparare i particolari della cerimonia dell’adozione, sempre con l’aiuto di Penny.
Stavo imparando il discorso nel quale dichiaravo di accettare di diventar membro del nido di Kkkah: un discorso non molto diverso, nello spirito, da quello con cui un giovane ebreo ortodosso accetta le responsabilità della vita d’adulto, e altrettanto fisso e invariabile quanto il soliloquio d’Amleto. Lo avevo pronunciato ad alta voce, completo di tutte le inflessioni e di tutti i tic di Bonforte. Giunto alla fine, domandai a Penny: — Cosa gliene pare?
— Piuttosto bene, direi — mi rispose, serissima.
— Grazie, Ricciolina — risposi, usando un’espressione che avevo spesso sentito pronunciare da Bonforte, ascoltando i nastri magnetici su cui erano registrati i suoi colloqui con Penny. Era così infatti che la chiamava quand’era in vena di familiarità, e del resto si trattava di un appellativo che calzava a pennello sia a lei che al personaggio di Bonforte.
— Non osi più chiamarmi così!
Le sbarrai in faccia due occhi sinceramente stupefatti, e risposi, sempre immedesimato nel personaggio: — Ma come, Penny, bambina mia…
— E non osi più chiamarmi neanche così! Lei… imitazione! Ciarlatano!… Attore! - balzò in piedi e corse via più lontano che poteva (vale a dire fino alla porta). Rimase lì accanto, voltata dall’altra parte, col viso nascosto tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.
Io feci uno sforzo tremendo per districarmi dalla parte che stavo recitando, trassi un profondo respiro, lasciai riaffiorare la mia vera faccia ed esclamai con la mia voce naturale: — Signorina Russell!
Lei smise di piangere, si volse a guardarmi, spalancò la bocca. — Torni qui al suo posto e si sieda — aggiunsi ancora, sempre con la mia voce.
Pensavo che si sarebbe rifiutata di farlo, ma parve ripensarci e ritornò lentamente a sedersi, con le braccia conserte ma con sul viso un’espressione da bambina che tiene il broncio.
Lasciai trascorrere un istante di silenzio, poi ripresi a parlare. — Certo, signorina Russell, sono un attore. Le pare che sia un buon motivo per insultarmi?