— Lei servì onorevolmente nostro padre. Oggi abbiamo pensato che potrebbe servire anche noi… cosa ha da dire?
— Il desiderio del mio sovrano è legge per me, Maestà.
— Si avvicini.
Forse esagerai un tantino in verismo, ma i gradini del trono erano alti, e la gamba mi stava effettivamente facendo male (era un fenomeno psicosomatico, ma in fin dei conti i dolori psicosomatici sono dolori come tutti gli altri). Stavo per inciampare, ma Guglielmo balzò giù dal trono come un lampo per sorreggermi il braccio. Sentii un mormorio soffocato uscire dalle bocche dei presenti. Il re mi sorrise e mi sussurrò: — Non si affanni, caro amico. Vedremo di sbrigarci presto.
Mi accompagnò fino allo sgabello posto davanti al trono e mi fece sedere, goffamente, un attimo prima che egli stesso fosse ritornato a sedersi. Poi tese la mano per farsi dare il rotolo di pergamena, e io glielo diedi. Egli lo aprì e fece finta di studiare attentamente quella pagina bianca.
Ora l’orchestra suonava musica da camera, e tutte le personalità della Corte fingevano esageratamente di divertirsi. Le dame mandavano risatine, i gentiluomini mormoravano frasi galanti, i ventagli s’agitavano senza interruzione. Nessuno si allontanava dal proprio posto, ma ciascuno era in continuo movimento. Paggetti simili a cherubini michelangioleschi giravano offrendo vassoi di dolci. Uno venne a inginocchiarsi davanti a Guglielmo, ed egli si servì senza staccare gli occhi da quella lista inesistente di ministri. Il paggetto poi presentò il vassoio anche a me, e io vi presi qualcosa senza sapere se il mio gesto fosse corretto o no. Era uno di quei meravigliosi, impareggiabili cioccolatini che si fanno solo in Olanda.
Guardandomi intorno senza darlo a vedere, riconobbi molti personaggi che avevo visto in fotografia o in stereo. C’erano quasi tutti i membri delle famiglie reali spodestate d’Europa, che si celavano sotto i loro titoli secondari di conti o di duchi. Taluni dicevano che re Guglielmo li manteneva per dar lustro alla Corte; altri dicevano che voleva tenerli d’occhio, casomai qualcuno di loro avesse in mente d’immischiarsi nella politica o in qualche altro imbroglio. Forse erano un po’ tutt’e due le cose. Inoltre erano presenti i nobili, non di sangue reale, di una decina di nazioni. Molti di loro lavoravano, per vivere.
Mi ritrovai a cercare, su quei volti, il labbro degli Asburgo e il naso dei Windsor.
Finalmente Guglielmo si decise a deporre la pergamena. Istantaneamente musica e conversazione cessarono; nel silenzio di tomba che seguì, il re disse: — Ci ha proposto un elenco di persone veramente meritevoli. Tendiamo a dare il nostro beneplacito alla formazione di questo Gabinetto.
— Ringrazio la Sua Graziosa Maestà.
— Dopo un più attento studio ed esame le daremo la conferma decisiva. — Si chinò verso di me e mi sussurrò: — Non cerchi di scendere quei maledetti gradini camminando all’indietro. Si limiti ad alzarsi. Me ne vado subito.
— Oh, grazie, Sire — risposi in un sussurro.
Si alzò, e mentre anch’io mi affrettavo a mettermi in piedi, scomparve tra un ondeggiar di mantelli. Voltandomi vidi molti visi stupefatti, ma la musica riattaccò subito, e io potei andarmene mentre i figuranti per parti nobili e reali riprendevano le loro educate conversazioni.
Appena sulla soglia, ricomparve come per incanto il colonnello Pateel. — Da questa parte, signore, per favore — disse, mettendosi alle mie costole.
La parte spettacolare era finita; ora veniva la vera udienza.
Pateel mi fece varcare una porticina che immetteva in un lungo corridoio vuoto alla fine del quale, da un’altra porticina, entrammo in un ufficio del tutto normale. L’unica cosa regale contenuta in esso era una grossa targa scolpita: lo stemma della Casa d’Orange con il suo motto immortale: "Io mantengo!". C’era uno scrittoio, ampio e massiccio, sul quale erano sparsi numerosi incartamenti. In mezzo a essi, tenuto fermo da un paio di scarpine da bambino placcate, c’era l’originale della lista di cui conservavo una copia in tasca. Dentro una cornice di rame c’era una foto di famiglia con la defunta imperatrice e i bambini. Contro una parete c’era un vecchio divano un po’ logoro, e, vicino, un piccolo mobile bar. Oltre a una sedia girevole dietro la scrivania, c’erano due poltrone, lutto l’arredamento avrebbe potuto andar bene per l’ufficio di un medico generico molto occupato e non troppo esigente.
Pateel mi lasciò solo, e si ritirò chiudendosi la porta alle spalle. Non ebbi modo di decidere se potevo o no sedermi, perché il re arrivò subito dalla porta opposta. — Salve, Joseph! — esclamò. — Sono subito da lei. — Attraversò a grandi passi la stanza, seguito da due servitori che lo stavano spogliando mentre camminava, e uscì da una terza porta. Ma rientrò quasi subito, allacciandosi la lampo di un giubbotto. — Lei è arrivato prima perché ha preso la scorciatoia. Io ho dovuto seguire la strada più lunga. Voglio farmi un po’ sentire da quell’architetto di Corte: desidero che mi scavi un altro corridoio da qui alla saletta dietro il trono, e accidenti, bisogna che mi decida. Devo sempre farmi tutt’e tre i lati del quadrato: o così, o sfilare in pompa magna per corridoi pieni di gente, bardato come un cavallo da circo. — Aggiunse, meditabondo: — Con quel costume ridicolo metto solo la biancheria intima!
— Sono sempre abiti più comodi della giacca da scimmia che tocca indossare a me, Sire — gli dissi.
Scosse le spalle. — Oh, be’, dobbiamo rassegnarci tutt’e due agli inconvenienti del mestiere. Si è già servito un bicchierino? — Prese la lista dei ministri. — Lo faccia pure, e ne versi anche uno per me — disse, leggendo.
— Che cosa beve, Sire?
— Eh? — ribatté lui, lanciandomi un’occhiata penetrante. — Il solito, naturalmente. Whisky e ghiaccio.
Non feci parola e versai il liquore, aggiungendo un po’ d’acqua tonica al mio. Avevo provato un attimo di paura. Se Bonforte sapeva che l’imperatore era solito bere whisky con ghiaccio, la notizia avrebbe dovuto comparire sul Farley. Invece non c’era scritto niente sui gusti imperiali in fatto di bevande.
Guglielmo, comunque, prese il bicchiere senza dir niente. — Accensione! - mormorò, e riprese l’esame della lista. — Che ne dice di questi giovanotti, Joseph? — disse poi, alzando gli occhi.
— Sire? È un gabinetto provvisorio, naturalmente. — Avevamo cumulato gli incarichi ogni volta che fosse possibile, e così Bonforte, oltre che essere Primo Ministro, teneva anche i ministeri della Difesa e del Tesoro. In tre casi, le nomine provvisorie, erano andate a precedenti sotto-segretari: Ricerche, Amministrazione della Popolazione, ed Esterni. Gli uomini che avrebbero poi dovuto occupare quegli incarichi nel governo permanente ci erano necessari per la campagna elettorale.
— Sì, sì, capisco, è la vostra squadra di riserve. Uhm… questo Braun, che tipo è?
Rimasi sorpreso oltre ogni aspettativa. Secondo quanto mi avevano detto, Guglielmo avrebbe dovuto approvare l’elenco senza far commenti, e probabilmente avremmo fatto quattro chiacchiere su altre cose. Le quattro chiacchiere non mi spaventavano: c’è gente che s’è fatta la fama di conversatore brillante semplicemente lasciando che gli altri parlino sempre loro.
Lothar Braun era quel che si dice un "giovane e promettente uomo politico". Quel che sapevo di lui l’avevo appreso dalle labbra di Rog e di Bill e dal suo Farley. Era entrato nella competizione politica dopo che era caduto il precedente governo Bonforte, quindi non aveva mai preso parte a un Gabinetto, ma si era fatto un’ottima esperienza in seno al Partito, come moderatore nelle riunioni ristrette e come probiviro ufficiale. Bill mi aveva assicurato varie volte che Bonforte si preparava a lanciarlo nella politica di governo, e che un governo provvisorio era il modo migliore perché si facesse le ossa; Bill l’aveva proposto per le Comunicazioni Esterne.