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Rog Clifton non mi era parso molto convinto. Prima aveva fatto il nome di Angel Jesus de la Torre y Perez, il precedente sottosegretario, ma poi Bill aveva fatto notare che se Braun era destinato a far fiasco, il governo provvisorio era una buona occasione per scoprirlo senza pericolo e Clifton si era arreso.

— Braun? — risposi. — È un giovane promettente. Persona molto brillante.

Senza fare commenti, Guglielmo continuò a leggere. Intanto io cercavo di ricordare esattamente quello che Bonforte aveva scritto su Braun, nello schedario, come parere personale. "Brillante… lavoratore… mente analitica." Aveva scritto qualcosa di negativo? No… cioè, forse: "Un po’ troppo affabile". Ma non si può condannare un uomo solo per questo. C’era però da tener conto che Bonforte non aveva fatto cenno a virtù positive come la fedeltà e l’onestà. Cosa che però non significava nulla, perché il Farley non è una raccolta di studi di carattere, ma un archivio di notizie.

— Joseph — mi domandò poi l’imperatore, deponendo la lista. — Lei ha intenzione di far entrare subito i nidi marziani nell’Impero?

— Eh? Oh, non certo prima delle elezioni, Sire.

— Su, via, lo sa benissimo che intendo riferirmi a dopo le elezioni. E poi, ha dimenticato come si dice "Guglielmo"? La parola "Sire", sulle labbra di un uomo che ha sei anni più di me, e per di più in un colloquio a quattr’occhi, mi sembra una sciocchezza.

— Sì, Guglielmo.

— Come sappiamo benissimo tutt’e due, si presume che la politica svolta dal nuovo governo non mi riguardi. Ma come sappiamo anche benissimo tutt’e due, questa presunzione è una sciocchezza. Joseph, in questi anni in cui non era al governo, lei ha lavorato per un solo scopo: creare una situazione tale che i marziani desiderino spontaneamente d’entrare a far parte dell’Impero, a parità di diritti. — Additò la verga. — A questo punto, mi pare che lei ci sia riuscito. Quindi, se vincerà le elezioni, potrà avere dalla Grande Assemblea anche un voto di maggioranza su questa legge, e io la proclamerò. No?

Ci pensai sopra. — Guglielmo — risposi lentamente — lei sa meglio di me che questa è sempre stata la nostra intenzione. Però, visto che me lo chiede, è evidente che vuol comunicarmi la sua opinione a proposito.

Facendo girare il bicchiere fra le dita, mi guardò fisso. Sembrava un aristocratico del New England in procinto di fare una ramanzina a un villeggiante. — Mi sta chiedendo un consiglio? La Costituzione esige che sia lei a consigliare me, non viceversa.

— I suoi consigli sono sempre i benvenuti, Guglielmo. Però non posso promettere che li seguirò.

— Accidenti — rise lui. — Lei non vuole mai compromettersi! Bene… Dunque, supponiamo che lei vinca le elezioni e ritorni al Governo, ma con una maggioranza così ristretta da aver difficoltà nel far passare la legge che concede piena cittadinanza ai nidi. In tal caso non le consiglierei di farne una questione di vita e di morte, legandola al voto di fiducia, ma di proporla invece come una legge qualunque: se la legge non passa, pazienza, accetti la sconfitta e buonanotte; ma resti in carica fino al termine del mandato.

— Perché, Guglielmo?

— Perché tanto io che lei siamo persone molto pazienti. Lo vede? — indicò lo stemma dove spiccava il motto del suo casato. — "Io mantengo!" Non è un motto vacuo, perché il compito dei re è di non essere vacui; il compito del re è conservare, resistere, mantenere. Ora, costituzionalmente parlando, non dovrebbe importarmi se lei resterà o no al Governo, ma m’importa che l’Impero stia insieme. Credo che anche se lei sarà sconfitto sulla legge marziana, immediatamente dopo le elezioni, potrà permettersi l’attesa… perché gli altri programmi del suo partito si dimostreranno molto popolari. Lei raccoglierà voti nelle elezioni suppletive, e può darsi che alla fine potrà venire qui ad avvertirmi che posso aggiungere all’elenco dei miei titoli anche quello di "Imperatore di Marte". Perciò, non abbia fretta!

— Ci penserò — risposi senza compromettermi.

— Sì, ci pensi bene. Ora, un’altra cosa: che ne dice del vigente sistema di deportazione?

— Ho intenzione d’abolirlo immediatamente dopo le elezioni, e di sospenderlo subito, appena entrato in carica il governo provvisorio. — Su questo potevo rispondere senza esitazioni; Bonforte lo odiava.

— Ma se ne serviranno per attaccarvi.

— Meglio. Facciano pure: raccoglieremo più voti.

— Sono felice di sentire che lei ha sempre la forza di sostenere le sue convinzioni, Joseph. Non mi è mai piaciuto che la bandiera d’Orange sventolasse su una nave di deportati. E il commercio, libero?

— Sì, dopo le elezioni.

— E per compensare le perdite dei dazi?

— Siamo del parere che il commercio e la produzione avranno una tale espansione, lasciati liberi, che le altre imposte dirette compenseranno la perdita dei dazi.

— E se invece non fosse così?

Non ero preparato a fornire controrisposte a questo tipo di domande, tanto più che l’economia è sempre stata un mistero per me. Feci un sorriso: — Guglielmo, su questa domanda devo chiedere ulteriori informazioni ai miei collaboratori. Tutto il programma del Partito espansionista si basa sul concetto che il libero scambio, i liberi traffici, le libere comunicazioni, la cittadinanza collettiva, la moneta comune, e il minimo possibile di leggi e di restrizioni imperiali, siano utili non solo ai cittadini dell’Impero, ma anche all’Impero stesso. Se ci occorreranno fondi li troveremo, ma senza bisogno di spezzettare l’Impero in piccole giurisdizioni amministrative. — Eccetto la prima frase, era tutto Bonforte puro, con qualche leggero adattamento.

— Mi risparmi questi bei discorsi elettorali — borbottò. — Era solo una domanda. — Riprese la lista. — È proprio sicuro che questo elenco di nominativi sia quello che lei desidera in cuor suo?

Tesi la mano, ed egli mi passò il foglio con i nomi. Accidenti, era chiaro come il sole che l’imperatore mi diceva, con tutta l’intensità permessagli dalla Costituzione, che secondo lui il nome di Braun non andava bene. Ma, per tutti i diavoli, non era affar mio cambiare la lista elaborata da Bill e Rog.

D’altra parte, in fin dei conti, non era la lista di Bonforte. Era soltanto il modo in cui Bill e Rog pensavano d’interpretare la volontà di Bonforte se fosse stato compos mentis.

In quel momento desiderai di poter prendere tempo per chiedere a Penny cosa ne pensasse di Braun.

Ma poi mi decisi. Presi dallo scrittoio di Guglielmo una penna e, tirata una riga sul nome "Braun", scrissi "de la Torre"… in stampatello perché non mi fidavo ancora di riuscire a imitare la calligrafia di Bonforte. L’imperatore si limitò a osservare: — Mi pare un ottimo governo. Buona fortuna, Joseph. Lei ne avrà bisogno.

Con ciò terminava l’udienza. Ero ansioso d’andarmene, ma non ci si può congedare da un sovrano: sono i sovrani che congedano i visitatori; è una delle poche prerogative che conservano ancora. Desiderava mostrarmi il suo laboratorio e i suoi nuovi modellini ferroviari. Credo sia stato lui più d’ogni altro a far rivivere quell’antico passatempo, anche se, personalmente, non riesco a vederlo come un’occupazione adatta a un adulto. Feci però dei suoni educati quando mi mostrò la sua nuova locomotiva giocattolo, una riproduzione in miniatura del "Royal Scotsman".

— Se ne avessi avuto la possibilità — mi confidò il re, mettendosi carponi a guardare l’interno del motore — sarei diventato un bravo capofficina, credo. Oppure un primo macchinista. Ma un certo incidente occorsomi alla nascita mi ha portato un grave handicap al riguardo.