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D’un tratto gli occhi mi si posarono su un nome: Corpsman, William J.

Cercai di nascondere quello che mi sembrava un senso di fastidio pienamente giustificabile, e dissi senza scompormi: — Vedo che c’è anche Bill nella lista, Rog.

— Oh, sì. Anzi, volevo proprio parlarne con lei. Vede, Capo, come sappiamo benissimo tutti, c’è stato un po’ d’attrito tra lei e Bill. Non che io voglia farne un rimprovero a lei; la colpa è senz’altro di Bill. Ma le cose hanno sempre due facciate. Forse lei può non essersene accorto, ma Bill soffre di un forte senso d’inferiorità. È appunto quello a renderlo così permaloso. Mettendo il suo nome nella lista, penso che si appianeranno tutte le cose.

— Eh?

— Sì. È una cosa che desidera da sempre. Vede, tutti noialtri abbiamo una carica ufficiale, cioè apparteniamo alla Grande Assemblea. E quando dico tutti, alludo a coloro che gli… ehm, le sono più vicini. Bill ne risente. L’ho già sentito, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, dichiarare che si sente uno stipendiato qualsiasi, e questo lo amareggia. A lei la cosa non dà fastidio, no? Al Partito fastidio non ne dà, e del resto è un prezzo abbastanza esiguo, se si pensa che potrà eliminare un’antipatica causa d’attrito in seno ai supremi vertici.

Ormai avevo riacquistato completamente la padronanza di me stesso. — Non sono affari che mi riguardano — dissi. — Perché dovrebbe darmi fastidio, se questo è il desiderio dell’onorevole Bonforte?

Riuscii a cogliere una rapidissima occhiata tra Dak e Rog. — È questo che vuole l’onorevole Bonforte? Vero, Rog?

— Diglielo, Rog — disse seccamente Dak.

Allora, parlando lentamente, Rog spiegò: — È un’idea mia e di Dak. Pensiamo sia una cosa utile.

— Dunque, l’onorevole Bonforte non l’ha approvata? Voi gliene avete parlato, vero?

— No, non gliene abbiamo parlato.

— E perché non l’avete fatto?

— Capo, non mi pare sia il caso di seccarlo con bazzecole come questa. È vecchio, stanco e ammalato. Lo disturbo solo per le più importanti decisioni politiche, e questa non lo è affatto. È una circostanza in cui avremo in ogni caso la maggioranza, indipendentemente dalla persona che presenteremo come candidato.

— E allora perché chiedete la mia opinione?

— Be’, ci pareva doveroso informarla e farle sapere anche il perché. Pensiamo che sarebbe meglio che l’approvasse anche lei.

— Io? Mi state chiedendo di prendere delle decisioni come se fossi l’onorevole Bonforte? Ebbene, io non lo sono! — Battei la mano sul tavolo come faceva lui quand’era nervoso. — Qui si tratta di una decisione che o è al suo livello, e allora dovreste parlarne con lui, oppure non lo è, e allora non dovreste parlarne con me.

Rog si spostò il sigaro di bocca e mormorò: — Bene, allora non le chiedo niente.

— No!

— Eh? Credo di non avere capito.

— Ho detto "No!". Me lo sta chiedendo, e perciò dovete avere qualche dubbio voi due per primi. Perciò, se volete che io sostenga la nomina di Bill di fronte al Comitato come se io fossi Bonforte, allora andate direttamente da lui a chiedergli se l’approva.

Rimasero per un lungo instante in silenzio. Infine Dak trasse un sospiro e disse: — Digli anche il resto, Rog, altrimenti glielo dico io.

Rimasi in attesa.

Clifton si tolse il sigaro di bocca e disse: — Capo, l’onorevole Bonforte ha avuto un collasso, quattro giorni fa, e non è in condizione d’essere disturbato.

M’irrigidii, e presi mentalmente a recitare "Essere o non essere, questo è il problema", sino alla fine. Quando ritornai padrone di me, chiesi: — Ma… è lucido?

— Sembra abbastanza lucido, ma è debolissimo. Quella settimana di prigionia è stata una prova massacrante per lui, più di quanto pensassimo. Dopo il collasso è rimasto in coma per ventiquattr’ore, e ora ha la parte sinistra del volto paralizzata; inoltre, quella stessa parte del suo corpo non si può muovere.

— Oh. Cosa ne dice il professor Capek?

— Ritiene che appena l’embolo si sarà sciolto, Bonforte ritornerà nelle condizioni normali; ora però ha bisogno di molta tranquillità, più di prima. Comunque, Capo, adesso è malato. Dobbiamo quindi rassegnarci a terminare la campagna elettorale senza di lui.

Provai un’ombra di quel senso di smarrimento che mi aveva colto quando era morto mio padre. Non avevo mai visto Bonforte, non avevo mai avuto nulla da lui, oltre a poche correzioni scribacchiate su qualche pagina dattiloscritta. Ma fino a quel momento mi ero sempre appoggiato a lui. Il fatto di sapere che era in quella stanza, dietro la porta, mi aveva reso possibile tutto ciò che avevo fatto fino ad allora.

Trassi un lungo sospiro, lo lasciai uscire, e dissi: — Va bene, Rog. Lo faremo.

— Sì, Capo. — Si alzò. — Dobbiamo andare a quella riunione. Ma… e quella? — Indicò col capo la lista dei seggi "sicuri".

— Già… — mormorai, pensoso. Dopotutto era possibile che Bonforte fosse pienamente disposto a premiare Bill conferendogli il privilegio di farsi chiamare "l’onorevole", tanto per farlo contento. Bonforte era piuttosto generoso in questo genere di cose; non metteva la museruola ai giovenchi che gli macinavano il grano. In una sua opera politica aveva scritto: "Io non sono un intellettuale. Però, se ho un talento particolare, forse è quello di scegliere uomini abili e incoraggiarli a operare".

— Da quanti anni Bill lavora per lui? — chiesi ad un tratto.

— Come? Ah, da circa quattro anni. Forse qualche mese di più.

Evidentemente Bonforte apprezzava la sua opera.

— Quindi era già con lui alla data delle scorse elezioni generali. Perché non l’ha fatto eleggere all’Assemblea, allora?

— Be’, non lo so. Non se n’è mai parlato.

— Quand’è che Penny fu eletta?

— Circa tre anni fa, in un’elezione suppletiva.

— Quindi lei ha già la risposta.

— Temo di non capire.

— Bonforte avrebbe potuto fare eleggere Bill alla Grande Assemblea in un momento qualsiasi — dissi. — Ma non l’ha fatto. Tolga quindi il suo nome, e lo sostituisca con quello di un rassegnatario. Se Bonforte desidera che Bill abbia la carica, potrà sempre farlo eleggere con un’elezione suppletiva… quando lo desidererà.

Il volto di Clifton non mostrò alcuna espressione. Egli si limitò a prendere la lista e a dire: — Molto bene, Capo.

Qualche ora più tardi Bill si licenziò. Immagino che fosse stato Rog a comunicargli che il suo tentativo di forzarmi la mano non era riuscito. Ma quando Rog mi comunicò l’accaduto, provai un profondo senso di malessere e mi sentii colpevole. La mia forse eccessiva ostinazione poteva averci messo tutti in un grave rischio. Ne parlai con Rog, e lui scosse la testa.

— Ma conosce tutto! — esclamai. — È stato lui ad avere l’idea, fin dall’inizio. Pensi un po’ a quante cose esplosive sul nostro conto potrà raccontare al Partito dell’umanità!

— Non se ne preoccupi, Capo. Bill è un individuo spregevole, e io non intendo più avere a che fare con lui; un uomo che ti pianta in asso a metà campagna elettorale: sono cose che non si fanno, mai! Ma Bill non fa la spia. Nella sua professione non si vanno a spifferare i segreti dei clienti, anche se si è litigato con loro.

— Spero che lei abbia ragione.

— Sì, lo vedrà lei stesso. Non se ne preoccupi. Pensi solo al nostro lavoro.

Nei giorni successivi dovetti persuadermi che Rog aveva ragione e che conosceva Bill meglio di me. Non sentimmo più parlare di lui, né direttamente né indirettamente, e la campagna elettorale andò avanti senza scosse, sempre più faticosa, ma senza niente che ci facesse pensare che il nostro gigantesco imbroglio fosse stato svelato. Cominciai a sentirmi meglio, e ritornai con impegno a pronunciare i discorsi di Bonforte. Davo il meglio di me stesso, scrivendoli a volte con l’aiuto di Rog, a volte con la sua semplice approvazione. L’onorevole Bonforte intanto, a detta del professor Capek, andava migliorando lentamente; tuttavia doveva rispettare un riposo assoluto.