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Poi si sfilava la cinghia, e se ne serviva per stimolare la mia intelligenza. Papà era uno psicologo pratico, ed era convinto che scaldando i glutei maximi con una striscia di cuoio si riuscisse a trarre il sangue in eccedenza dal cervello. Anche se posso nutrire dei dubbi sull’esattezza dei fondamenti teorici di tale convinzione, debbo però ammettere che i risultati giustificarono il metodo: a quindici anni ero in grado di star ritto sulla testa sopra un filo teso, e di recitare pagine e pagine di Shakespeare o di Shaw senza inciampi, e di richiamar l’attenzione del pubblico su di me, in una scena, con il semplice gesto di far accendere una sigaretta.

Ero profondamente immerso nelle nebbie della creazione artistica quando Broadbent fece capolino. — Santo cielo! — esclamò. — Non ha ancora incominciato?

Lo fissai freddamente. — Se non vado errato, lei desidera da me il meglio che posso dare, no? E allora non si può improvvisare una simile creazione da un momento all’altro. Crede che un cordon bleu riuscirebbe a mescolare una nuova salsa in sella a un cavallo lanciato al galoppo?

— Al diavolo il cavallo! — ribatté, lanciando un’occhiata all’orologino che portava al mignolo. — Le restano sei minuti. Se non riesce a combinare qualcosa in questo tempo, dovremo rischiare il tutto per tutto.

Be’, certo preferisco avere tutto il tempo a disposizione, ma avevo sostituito mio padre nella sua creazione trasformistica L’assassinio di Huey Long, quindici personaggi diversi in sette minuti, e una volta ero riuscito a eseguirla in nove secondi meno di lui.

— Rimanga lì! — gli risposi prontamente. — Sarò subito da lei.

Così detto cominciai a crearmi il viso di "Benny Grey", lo smorto tuttofare che commette i delitti nella Casa senza porte… due rapidi colpi di matita per farmi due righe stanche sulle guance, dal naso agli angoli della bocca, un semplice accenno di borse sotto gli occhi, e un fondo giallastro Factor N. 5 sopra il tutto. Tempo richiesto: venti secondi. Sarei riuscito a farlo anche dormendo. La casa senza porte tenne cartellone per novantadue recite prima che la registrassero.

Poi mi volsi verso Broadbent che restò senza fiato: — Santo cielo! Non l’avrei mai creduto.

Fedele al personaggio di "Benny Grey", non sorrisi neppure in risposta. Quel che Broadbent non poteva capire era che il cerone, a dire il vero, non era affatto necessario. Certo, con un po’ di cerone la cosa diventa più facile, ma io me n’ero dato una lustratina soltanto per un motivo: perché lui pensava che dovessi farlo. Era pur sempre un bifolco, e supponeva che il trucco di un artista fosse tutta questione di cerone e d’impiastri.

Lui continuava a fissarmi. — Senta un po’ — disse poi. — Non potrebbe fare qualcosa di simile anche per me? In fretta?

Stavo per dire di no, quando mi resi conto che la sua richiesta costituiva un’interessante sfida alla professione artistica. Avevo la tentazione di rispondergli che se mio padre avesse cominciato a lavorare su di lui a cinque anni, adesso sarebbe stato pronto per vendere zucchero filato al baraccone della fiera del paese, ma preferii non deluderlo.

— Le basta non essere riconosciuto? — domandai.

— Sì, sì! Non potrebbe truccare anche me, mettermi un naso finto, o qualcos’altro?

Scossi il capo. — No, col trucco non otterremmo nulla: tutt’al più riuscirei a farla assomigliare a un bambino che si è messo in maschera per la sfilata di Carnevale. Occorre saper recitare, e lei non può più imparare, alla sua età. No, meglio non far nessun ritocco al viso…

— Ma allora… con questo naso che mi ritrovo…

— Mi dia ascolto. Qualunque cosa facessi, quel suo signor naso finirebbe lo stesso per richiamare l’attenzione. Invece, non le basterebbe qualcosa di diverso? Che uno che la conosce, vedendola, dicesse: "Ehi, ma guarda, quello, come rassomiglia a Dak Broadbent. Sono sicuro che non è lui, certo, però un po’ gli rassomiglia". Eh?

— Ma… penso di sì. Basta però che sia sicuro di non avermi riconosciuto. Dopotutto dovrei essere su… lasciamo perdere. Non dovrei essere sulla Terra, in questo momento.

— Saranno tutti sicuri di non averla riconosciuta, perché cambieremo la sua andatura. È proprio l’andatura la sua caratteristica più saliente. Se non camminerà nel solito modo, nessuno la riconoscerà… penseranno che sia qualche altro omaccione grande, grosso e spalluto come lei.

— Va bene. Mi faccia vedere come devo camminare.

— No, non lo imparerebbe mai. La costringerò a farlo nel modo voluto, per forza.

— Ma come?

— Mettendo un po’ di sassolini o qualcosa di simile nella punta degli stivali. La costringeranno ad appoggiarsi più sul tacco, e la faranno star diritto con la schiena. Non riuscirà più a scivolare via col passo felpato dello spaziale. Uhm… metterò anche una bella striscia di cerotto tra le scapole, così si ricorderà di tenere indietro le spalle. Dovrebbe bastare.

— Ma lei crede che risulterò irriconoscibile solo perché camminerò in modo diverso?

— Sicuro! Uno che la conosce non saprà dire perché è così sicuro che non è lei, ma proprio per il fatto che la sua convinzione è subconscia e primitiva, non avrà alcun dubbio. Oh, se proprio vuole, posso fare anche qualcosa per la sua faccia, tanto perché si senta a suo agio, ma le assicuro che non ce n’è bisogno.

Ritornammo nel salotto dell’appartamento. Io continuavo a essere "Benny Grey", naturalmente. Una volta che assumo una personalità diversa, mi occorre poi uno sforzo di volontà per ritornare a essere me stesso.

Dubois era sempre affaccendato col visifono. Alzò gli occhi, mi vide, e rimase un istante a fissarmi imbambolato. Poi uscì di corsa dalla cabina a prova di suono per domandare: — E questo chi è? Dov’è andato l’altro, l’attore?

Dopo avermi guardato di sfuggita in quel primo istante, aveva distolto gli occhi e non s’era più preoccupato di me. "Benny Grey" è un ometto talmente scialbo e trascurabile che nessuno si cura d’osservarlo.

— Che attore? — risposi io, con la voce piatta e incolore di Benny. La domanda riportò su di me l’attenzione di Dubois, che mi fissò, voltò via gli occhi indeciso, poi ritornò a fissarmi, esaminando anche i miei abiti. Broadbent scoppiò a ridere, dandogli una manata sulla spalla.

— E così, dicevi che non era buono a far niente! — Poi aggiunse brusco: — Sei riuscito a metterti in contatto con tutti, Jacques?

— Sì. — Dubois tornò a guardarmi, perplesso, poi distolse ancora lo sguardo.

— Bene. Dobbiamo essere fuori di qui entro quattro minuti. Avanti, Lorenzo, vediamo quanto ci mette a prepararmi.

Dak si era già sfilato uno stivale, si era tolto la giubba e si era arrotolato la camicia sulla schiena in modo che potessi fissargli il cerotto tra le scapole. Stavo per avvicinarmi a lui, quando la lampadina sopra l’uscio si accese e il campanello si mise a ronzare. S’irrigidì. — Jacques! Deve venire qualcuno?

— Sarà forse Langston. Ha detto che cercava di raggiungerci qui, prima che partissimo. Se faceva in tempo. — Dubois si diresse verso l’uscio.

— Potrebbe non essere lui. Potrebbe essere… — Non riuscii a sentire dalla voce di Broadbent chi sarebbe potuto essere, perché intanto Dubois aveva aperto. E inquadrato sulla soglia, come un fungo velenoso da incubo, c’era un marziano.