Dak entrò nel vagoncino e formò un numero completamente diverso. Il veicolo girò su se stesso, s’immise su una rotaia, e partì in direzione del livello sotterraneo, anziché per quello superiore. La cosa non mi fece nessuna impressione. Ormai non m’interessava più niente.
Quando scendemmo, il vagoncino tornò automaticamente al punto di partenza. Davanti a me si innalzava una scala a pioli che spariva nel soffitto d’acciaio, sopra di noi. Dak mi toccò col gomito.
— Su, salga. — In cima alla scala si vedeva un portello, con appeso un cartello ammonitore: RADIAZIONI — PERICOLO — Massima tolleranza ottimale 13 secondi. I numeri erano scritti col gessetto. Mi fermai. Non m’interessa particolarmente aver figli, ma non sono talmente sciocco da assorbire una dose elevata di radiazioni per niente. Dak sghignazzò e disse: — Cosa fa, cerca le mutande di piombo? Avanti, salga, apra il portello in fretta e scappi su per la scaletta interna del razzo. Se non si ferma a grattarsi le pulci, può farcela risparmiando tre secondi.
Credo d’averne risparmiati cinque. Uscii per un paio di metri alla luce del sole, poi entrai in un lungo condotto all’interno del razzo. Ricordo d’aver fatto gli scalini a tre per volta.
Il razzo sembrava piuttosto piccolo. Per lo meno in sala comando non c’era spazio per muoversi; quanto al resto, non so dire, perché non ebbi mai modo di vederlo. Fino a quel momento, le uniche astronavi che avessi mai visto dall’interno erano i traghetti lunari Evangeline e la sua gemella Gabriel, in quell’anno disgraziato in cui avevo accettato imprudentemente un contratto per la Luna, in società con un impresario. Il mio socio era convinto che lassù, con la forza di gravità ridotta a un sesto, uno spettacolo di giochi di prestigio e di acrobazie potesse dare risultati migliori. Il ragionamento era abbastanza giusto, ma non avevamo pensato che occorre un lungo periodo di prove per acclimatarsi alla diminuzione di gravità… risultato: tornai sulla Terra col foglio di via e fui costretto a lasciare sulla Luna tutto il guardaroba.
In sala comando c’erano due individui. Uno stava sdraiato in una delle tre cuccette d’accelerazione a gingillarsi con manopole e quadranti, l’altro stava eseguendo un misterioso lavoretto con il cacciavite. Quello nella cuccetta mi lanciò un’occhiata, ma non aprì bocca. L’altro si voltò, fece la faccia preoccupata e chiese, guardando oltre me: — Cos’è successo a Jacques?
Alle mie spalle, Dak intanto era arrivato, quasi volando fuori del portello. — Non c’è tempo! — tagliò corto. — Hai già rifatto i calcoli senza il suo peso?
— Sì.
— Red, è pronto il piano di volo? La torre di controllo?
L’uomo sulla cuccetta si sollevò pigramente sul gomito, e dichiarò: — Ho rifatto i calcoli ogni due minuti. La rotta è libera, dice la torre di controllo. Meno quaranta… ehm… sette secondi al via.
— Vìa dalla cuccetta! — lo incitò Dak. — Svelto! Non voglio perdere un secondo.
Red si alzò dalla cuccetta con riluttanza, mentre Dak prendeva i comandi. L’altro mi fece sdraiare sulla cuccetta del pilota in seconda e mi legò come un salame con le cinture di sicurezza. Poi si voltò e si lasciò scivolare giù per il condotto da cui eravamo saliti noi. Red gli andò dietro, ma si fermò dopo due o tre scalini, ergendosi con tutta la testa e le spalle. — Signori, prego, biglietti! — gridò in tono faceto.
— Oh, perdio! — Dak allentò la cintura di sicurezza, infilò la mano in tasca, estrasse i due permessi che ci erano serviti per scivolare a bordo clandestinamente, e li gettò a Red.
— Grazie — disse Red. — Vediamoci qualche volta in chiesa — scherzò. — Accensione! e tutto quel che segue. — Si dileguò per la scaletta con calma; sentii il rumore del portello pressurizzato che si chiudeva, e un’improvvisa pressione ai timpani. Dak non rispose all’augurio di Red; era indaffarato a girare le manopole del computer e ad apportare piccole correzioni al piano di volo.
— Ventun secondi — mi comunicò. — Non ci sarà nessun conto alla rovescia. Stia attento a tenere le braccia dentro, e cerchi di rilassarsi. La partenza andrà liscia come il burro.
Ubbidii senza fiatare, e aspettai per ore in uno stato di tensione spasmodica, come se avesse dovuto alzarsi il sipario su una prima. Alla fine azzardai: — Dak?
— Zitto!
— Solo una cosa: dove andiamo?
— Marte. — Vidi il suo pollice affondare su un pulsante rosso, e piombai nell’incoscienza.
2
Cosa ci sarà, poi, di tanto divertente in una persona che sta male come un cane? Certi fessi con lo stomaco foderato di lamiera ridono sempre, vedendone una. Scommetto che riderebbero perfino se vedessero che la nonna è cascata per terra e si è spaccata le gambe.
Il mal di spazio mi colpì in forma acuta, non occorre dirlo, appena si spensero i motori del razzo ed entrammo in caduta libera. I conati finirono relativamente in fretta, visto che il mio stomaco aveva poco da restituire — non avevo mangiato niente, dalla prima colazione in poi — ma rimasi in uno stato di malessere opaco per tutto il resto (eterno) di quel viaggio infernale. Ci volle un’ora e quarantatré per giungere al punto convenuto, il che equivale all’incirca a mille anni di purgatorio per un terricolo come me.
Va detto a onore di Dak che non rise. Era uno spaziale di professione, lui, e considerò la mia reazione, peraltro normalissima, con la cortesia impersonale delle assistenti di volo, non come quei cialtroni ridanciani e senza sale in zucca che compaiono nelle liste dei passeggeri dei traghetti lunari. Se comandassi io, quei burloni li sbatterei nello spazio, senza tuta, e li lascerei ridere a crepapelle… nel vuoto interplanetario.
Nonostante il turbine di pensieri che mi sconvolgeva la mente e le mille domande che avrei voluto formulare, eravamo già quasi arrivati al punto d’incontro con una "nave torcia", che ci aspettava su un’orbita di parcheggio intorno alla Terra, prima che trovassi la forza di riprendermi e d’interessarmi di quanto mi concerneva. Sono convinto che se prendono una persona che soffre di mal di spazio e le comunicano che verrà giustiziata l’indomani all’alba, la sua unica reazione sarà questa: — Davvero? Mi passa quel sacchetto, per favore?
Ma finalmente cominciai a sentirmi un po’ meglio, vale a dire che, invece d’indicare il desiderio della morte, con profonda convinzione, l’ago della bilancia era risalito fino a un certo interesse sparuto e titubante per la prosecuzione della vita. Dak continuava a darsi da fare con il comunicatore del razzo, e sembrava stesse parlando su un raggio direzionale molto sottile, perché spostava continuamente il controllo dell’antenna, come un mitragliere antiaereo che aggiustasse il tiro su un bersaglio difficile. Non riuscivo a sentire quello che diceva, e non potevo neppure leggergli le labbra, perché aveva ficcato tutta la parte inferiore del volto nella mascherina del laringofono. Ritenni, comunque, che stesse parlando con l’astronave da lunga crociera che dovevamo raggiungere, la "nave torcia".
Quando finalmente si tolse il comunicatore e lo mise da parte, accendendosi una sigaretta, dominai il conato di nausea che la semplice vista del tabacco mi aveva suscitato nello stomaco e chiesi: — Dak, non le sembra venuto il momento di spiegarmi qualcosa?
— Avremo tutto il tempo mentre saremo in viaggio per Marte.
— Ah sì? Accidenti a lei e alla sua presunzione! — protestai debolmente. — Non ho nessuna voglia di andare su Marte. Non avrei neppure preso in considerazione la sua offerta assurda, se avessi saputo che occorreva andare su Marte.