Capivo fin troppo bene. Dak non l’aveva detto, e forse non ne sapeva neppure il significato esatto, ma mi faceva capire che non ero un vero attore. E il peggio è che aveva ragione. Non avevo ragione d’arrabbiarmi: potevo solo arrossire di vergogna. Ero stato un idiota ad accettare il contratto senza informarmi meglio, però avevo accettato, senza porre condizioni o comode scappatoie. E adesso cercavo di tirarmi indietro come un filodrammatico preso dal panico alla prima recita.
"Lo spettacolo deve continuare" è il più antico motto della gente di teatro. Forse non contiene nessuna verità filosofica, ma ben di rado le cose che gli uomini vivono possono venire dimostrate in base alla logica. Mio padre ci aveva creduto… l’avevo visto recitare per due atti con l’appendice perforata, e inchinarsi ancora agli applausi, prima di lasciarsi condurre all’ospedale. E ora mi pareva di vederlo davanti a me, con il viso atteggiato al sommo disprezzo dei veri professionisti per l’attorucolo disposto a lasciare il pubblico a bocca asciutta.
— Dak — dissi umilmente — mi dispiace. Ho agito male.
Lui mi lanciò un’occhiata penetrante. — Accetta il lavoro?
— Sì — risposi, ed ero sincero. Ma subito mi venne in mente un particolare che m’avrebbe impedito di recitare la parte, come se si fosse trattato d’impersonare Biancaneve nei Sette nani.
— Sì — ripetei. — Cioè… mi piacerebbe. Ma…
— "Ma" cosa? — domandò lui con profondo disprezzo. — Un altro di quei suoi maledetti capricci?
— No, no! Però mi ha detto che si va su Marte… Dak, dovrò fare questo lavoro di sostituzione in mezzo ai marziani?
— Eh?… Certo. Chi vuole che ci sia, su Marte?
— Già… Ma, Dak… io proprio non li posso sopportare! Mi fanno venire la tremarella. Mi sforzerò come posso… cercherò di resistere, ma la sostituzione potrebbe far fiasco.
— Ah, se si preoccupa solo di questo, lasci perdere.
— Come posso lasciar perdere? Non posso far a meno di provare ribrezzo.
— Le ho detto di lasciar perdere. Senta, amico, sappiamo già benissimo che lei è bifolco su tante cose. Sappiamo tutto, di lei. Lorenzo, il suo ribrezzo per i marziani è una cosa puerile e irragionevole come la paura dei ragni o dei serpenti. Noi ne abbiamo già tenuto conto, e prenderemo i provvedimenti del caso. Quindi, le ripeto per la terza volta: lasci perdere.
— Be’… allora… — Non mi sentivo molto convinto, ma le sue parole mi avevano punto sul vivo. "Bifolco"… Ma come!? I bifolchi sono il pubblico! Così mi guardai bene dall’insistere.
Dak prese il laringofono, senza preoccuparsi d’infilare la bocca nella mascherina antifonica. — Dente di Leone a Ranuncolo. Dente di Leone a Ranuncolo. Annullare il piano Macchia d’inchiostro. Proseguiamo con Mardi Gras.
— Dak — lo chiamai mentre dava il segnale di chiusura.
— Più tardi… — mi rispose. — Devo mettermi sulla loro orbita. È probabile che il contatto sarà un pochino rude, perché non posso perder tempo a controllare al millesimo. Quindi stia zitto e si tenga forte.
Non aveva torto: fu davvero rude. Quando ci fummo finalmente trasferiti sulla nave torcia, fui lieto di tornare alla cara vecchia caduta libera; gli scrolloni dell’attracco sono perfino peggiori del vecchio, caro mal di spazio. Non restammo più di cinque minuti in caduta libera. I tre uomini che dovevano tornare a terra sulla Puoi farcela si pigiarono nella cabina pressurizzata mentre noi fluttuavamo a bordo della Passa al primo turno! Seguì qualche momento di gran confusione per me. Credo proprio di essere un terricolo fino all’osso, se mi disoriento con tanta facilità quando non distinguo il soffitto dal pavimento. Qualcuno gridò: — Dov’è? — Un altro rispose: — Eccolo! — (era la voce di Dak, questa). Poi la voce che aveva parlato per prima esclamò: — Lui? — come se non credesse ai propri occhi.
— Sì, sì! — ripeté Dak. — Adesso è truccato… Lascia perdere, è tutto a posto. Dammi una mano a metterlo sotto torchio.
Una mano mi afferrò per il braccio e mi trascinò lungo uno stretto passaggio fino a una cabina. Contro una parete c’erano due cuccette d’alta accelerazione, i "torchi per olio", a forma di vasca da bagno: cuscini idraulici a pressione uniforme, in uso sulle navi torcia. Non ne avevo mai visto uno prima, ma li conoscevo già approssimativamente, perché ne avevamo usato delle perfette imitazioni nel dramma spaziale I commando di Terra 1.
Sulla parete, dietro le cuccette, c’era scritto con la matita rossa: ATTENZIONE — Vietato usare torchi a più di 3 g senza tuta — Ordine di… La scritta ruotò lentamente fuori del mio campo visivo prima che riuscissi a leggerla tutta, e qualcuno mi spinse dentro il "torchio". Dak e un altro erano intenti a legarmi febbrilmente con le cinture di sicurezza quando un campanello si mise a suonare orribilmente, poco lontano. Continuò per diversi secondi, poi smise; una voce disse: — Avviso! Due g! Tre minuti! Avviso! Due g! Tre minuti! - Poi il campanello riprese a suonare.
In tutto quel baccano, sentii la voce di Dak domandare in tono insistente: — Il proiettore è a posto? I nastri sono pronti?
— Sì, sì.
— La siringa? — Dak mi fluttuò davanti e mi disse: — Senta, amico, adesso le facciamo un’iniezione. Niente paura. Si tratta di due preparati: in parte è Gravitiol, il resto è uno stimolante… perché lei deve star sveglio a studiare la parte. Sulle prime sentirà un bruciore agli occhi e un po’ di prurito, ma non c’è niente da temere.
— Un momento, Dak, io…
— Non c’è tempo! Devo fumar via questo barcone di rottami. — Fece una capriola a mezz’aria e uscì prima che avessi il tempo di protestare. Il secondo individuo mi arrotolò fin sopra al gomito la manica sinistra, mi appoggiò una pistola ipodermica contro la pelle, e in un batter d’occhio m’iniettò un liquido nella vena. Se ne andò immediatamente, mentre l’altoparlante ritornava a gridare: — Avviso! Due g! Due minuti!
Mi sforzai di guardarmi intorno, ma l’iniezione accresceva la mia confusione. Mi sentivo bruciare occhi e gengive, e cominciavo a sentire un prurito insopportabile lungo la schiena, ma le cinghie che mi legavano m’impedivano di grattarmi l’area tormentata… e probabilmente anche di spezzarmi un braccio sotto accelerazione.
Il campanello smise di nuovo di suonare, e questa volta rimbombò dall’altoparlante la voce di Dak, baritonale e sicura di sé: — Ultimo avviso! Due g! Un minuto! Mettete via le carte da gioco e spicciatevi ai vostri posti, lazzaroni! Tra un po’ si fuma! — Invece del campanello, questa volta ci fu una registrazione di Ad astra, Opera 61 in Do maggiore di Arkezian. Era la polemica esecuzione della London Symphony Orchestra, con la serie delle quattordici note "terrificanti" scandita dai timpani. Ma io ero talmente depresso, confuso, e imbottito di farmaci che non fecero alcun effetto su di me. Cosa volete, era come far piovere sul bagnato.
Una sirena si affacciò alla porta. Intendiamoci, non aveva una coda di pesce, verde e squamosa, tuttavia mi sembrò proprio una sirena quando entrò fluttuando a mezz’aria nella cabina. Quando la vista mi si schiarì abbastanza, vidi che sembrava trattarsi invece d’una giovane donna in maglietta e calzoncini, decisamente mammifera. Nuotava a mezz’aria nella mia direzione, con la sicurezza di un’esperta di caduta libera; mi diede un’occhiata senza accennare a sorrisi, si pilotò fino all’altro "torchio" e afferrò le maniglie senza curarsi di allacciare le cinghie di sicurezza. La musica era giunta al finale maestoso, e io mi sentivo pesante, molto pesante.
Due g non sono poi tanti, specialmente quando si sta galleggiando su un letto liquido. Sulla superficie del "torchio" si erano gonfiati una serie di cuscini di materia plastica e morbida: esercitavano la giusta pressione e mi reggevano completamente. Provavo solo una gran sensazione di peso e una certa difficoltà nel respirare. Si sente spesso raccontare di piloti che "torciano" a 10 g e che si riducono a rottami, e credo che quelle storie siano vere. Ma 2 g, presi su una cuccetta idraulica, vi fanno sentire solo fiacco, incapace di muovervi.