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— Le do senz’altro il mio permesso — gli risposi subito. — Però debbo farle notare, professore, che non servirà a nulla. È impossibile ipnotizzarmi. — Avevo imparato anch’io le tecniche ipnotiche all’epoca in cui presentavo il mio famoso numero di lettura del pensiero, ma coloro che me le avevano insegnate non erano mai riusciti a ipnotizzarmi. Un pizzico d’ipnotismo serve sempre, in numeri come il mio, specialmente se la polizia locale non è molto pignola nel far rispettare le leggi imposte dai sanitari per limitare l’esercizio abusivo della loro professione.

— Davvero? Be’, allora faremo quel che potremo. Pensi solo a rilassarsi, a mettersi comodo, e parleremo un po’ del suo guaio. — Teneva sempre in mano l’orologio e lo faceva dondolare, torcendo la catenina, anche dopo aver terminato di misurarmi le pulsazioni. Volevo dirgli qualcosa, perché l’orologio rifletteva la luce della lampadina che avevo proprio dietro la testa, ma pensai che si trattasse solo di una specie di tic nervoso di cui egli stesso non era a conoscenza: una cosa troppo banale, a dire il vero, per farla notare a un estraneo col rischio di offenderlo.

— Sono rilassato — lo rassicurai. — Mi chieda pure. Oppure, se preferisce, possiamo provare per associazione libera.

— Si lasci andare — mi disse lui, piano. — Due g ci fanno sentire pesanti, non le pare? Sa come faccio, io? Di solito mi limito a dormire per tutto il tempo. La gravità fa affluire meno sangue al cervello, fa venir sonno. Adesso devono accelerare, devono fare una correzione di rotta. Dormiremo tutti… Ci sentiamo pesanti… Dormiremo tutti…

Stavo per dirgli che era meglio che mettesse via l’orologio, altrimenti poteva scivolargli di mano. Invece mi addormentai.

Al mio risveglio, mi accorsi che l’altra cuccetta d’accelerazione era occupata dal professor Capek. — Salve, giovanotto! — mi salutò. — Ero stufo di quel maledetto girello e ho preferito stendermi qui per distribuire il peso.

— Ah, allora siamo tornati a 2 g?

— Cosa? Ah, sì. Certo. Siamo a 2 g.

— Mi scusi se mi sono addormentato. Ho dormito molto?

— No, non molto. Come si sente?

— Bene. Proprio riposato, debbo dirlo.

— Già, sovente produce anche quest’effetto… Parlo dell’accelerazione, naturalmente. Se la sente di vedere qualche nastro?

— Ma certo, se lo desidera, professore.

— Bene, allora. — Allungò la mano e la cabina piombò nel buio.

Mi aspettavo che mi mostrasse di nuovo i marziani, e preparai la mente a combattere il ribrezzo. Dopotutto, mi dicevo, in altre occasioni ero riuscito benissimo a ignorare la loro presenza; inoltre, un marziano registrato non poteva far male a nessuno… l’altra volta mi avevano colto di sorpresa, tutto qui.

Avevo ragione: le immagini tridimensionali mostravano marziani per tutti i gusti, soli o in compagnia dell’onorevole Bonforte. Mi accorsi che riuscivo a osservarli con distacco, senza paura né ribrezzo.

E d’improvviso mi resi conto che ci provavo gusto a guardarli!

Lasciai sfuggire un’esclamazione, e Capek interruppe il film.

— Qualcosa non va?

— Professore… lei mi ha ipnotizzato!

— Lei mi aveva dato il permesso.

— Ma io non riesco a farmi ipnotizzare.

— Ne sono desolato…

— Uhm, dunque c’è riuscito. Non sono così sciocco da non accorgermene. — E aggiunsi: — Proviamo a vedere di nuovo quei nastri. Non riesco a crederci.

La proiezione riprese e io la osservai con grande stupore. I marziani non erano disgustosi, se li si guardava senza pregiudizi; non erano neppure brutti. Anzi, a guardarli bene, si constatava che avevano la stessa grazia singolare delle pagode cinesi. Sì, non avevano forma umana, ma dopotutto neppure un uccello del paradiso ha forma umana, eppure è una delle più belle cose del creato.

Cominciai anche a notare come i loro pseudoarti riuscissero a essere molto espressivi; come i loro movimenti goffi ricordassero la giocondità spensierata dei cuccioli. Ora capivo che fino a quel momento avevo sempre osservato i marziani con la lente deformante dell’odio e della paura.

Naturalmente, pensavo, mi restava lo sforzo maggiore: abituarmi al loro odore… e d’improvviso mi accorsi che qualcosa mi colpiva l’olfatto: era il loro odore inconfondibile… e non destava affatto il mio disgusto! Anzi mi piaceva. — Professore! — esclamai — questa macchina da proiezione ha anche un impianto per gli odori, no?

— Come? No, credo proprio di no. Peserebbe troppo per uno yacht.

— Eppure giurerei che ce l’ha. Sento chiaramente l’odore dei marziani.

— Ah, certo — rispose, guardandomi un po’ vergognoso. — Giovanotto, le ho fatto una cosa che spero non le dia fastidio.

— E sarebbe?

— Mentre le scrutavamo il cervello, abbiamo scoperto che la sua disposizione nevrotica verso i marziani era suscitata soprattutto dal loro odore. Poiché non avevo tempo di sottoporla a una cura lunga, ho dovuto servirmi di un fattore compensativo. Ho chiesto a Penny… la ragazza che c’era prima, l’avrà vista… che m’imprestasse la sua boccetta del profumo. Temo che d’ora in poi, giovanotto, per il suo naso i marziani profumeranno come una casa d’appuntamenti parigina. Se avessi avuto tempo avrei scelto un odore più casalingo, come fragola o vaniglia. Ma ho dovuto improvvisare…

Annusai. Sì, l’odore aveva il sentore greve di un profumo di lusso, eppure, accidenti, era inequivocabilmente la puzza dei marziani!

— Confesso che mi piace — dissi.

— Non può fare a meno di piacerle.

— Professore, lei ne avrà versato una boccetta intera. La cabina ne sembra inzuppata.

— Come? No, niente affatto. Mi sono limitato a passarle il tappo sotto il naso, mezz’ora fa, poi ho restituito la boccetta a Penny che l’ha riportata via. — Annusò a sua volta. — Mmm… Non si sente più alcun odore, adesso. "Passione tropicale" diceva l’etichetta, e doveva contenere una bella percentuale di muschio. Ho accusato Penny di voler dare all’equipaggio l’ebbrezza spaziale, e lei mi ha riso in faccia. — Allungò la mano e spense il proiettore. — Basta con questa roba, adesso. Intendo farle fare qualcosa di più utile.

Quando la scena sì dileguò, anche la fragranza svanì con l’ultima immagine, proprio come avviene coi proiettori muniti d’impianto odorifero. Mi occorse un certo sforzo per convincermi che era tutta una mia illusione, anche se, come attore, avrei dovuto saperlo perfettamente.

Quando Penny tornò, pochi minuti dopo, il profumo che le aleggiava intorno era esattamente quello dei marziani.

Lo trovai squisito.

4

La mia istruzione proseguì nella stessa cabina (la camera degli ospiti di Bonforte) fino al capovolgimento della nave. Non dormii mai, con l’eccezione dei periodi in cui fui sotto ipnosi, ma non provai mai sonno. O il professor Capek o Penny mi stavano a fianco, pronti ad aiutarmi, e non rimasi solo un momento. Per fortuna, il mio uomo era stato fotografato e cinematografato in tutte le occasioni possibili e immaginabili, al pari di qualsiasi altro personaggio storico, e per di più avevo la stretta collaborazione dei suoi intimi. Il materiale che avevo a mia disposizione era infinito; c’era solo il problema di scoprire quanto ne avrei potuto assimilare, sia da sveglio sia in stato d’ipnosi.

Non so bene quando cessai di provare antipatia per Bonforte. Capek mi assicurò — e non c’è motivo di dubitare delle sue parole — di non avermi indotto alcuna suggestione ipnotica su questo argomento specifico: io non gli avevo chiesto di farlo, e inoltre sono pronto a giurare sulla sua estrema correttezza per quanto riguarda le sue responsabilità morali di medico e d’ipnoterapeuta. Suppongo che il mutamento dei miei sentimenti nei confronti di Bonforte sia stato una cosa del tutto naturale, inevitabile, e che si sia prodotto man mano che andavo immedesimandomi in lui… penso che giungerei a provare simpatia perfino per Jack lo Squartatore, se dovessi studiarne la parte. È una cosa abbastanza comprensibile: per imparare a fondo una parte, occorre immedesimarsi provvisoriamente nel personaggio, assumerne la personalità, diventare lui. E ci sono due sole possibilità: o si prova della simpatia per se stessi, o si finisce suicidi.