Ma Bonforte non poteva assolutamente rifiutare una simile richiesta, e poiché io ero Bonforte, sorrisi giovialmente e domandai: — E così lei, signorina, ha già l’autografo di Quiroga?
— Sissignore.
— Solo la firma?
— Sì… cioè, ha anche scritto "Auguri".
Io strizzai l’occhio a suo padre. — Solo "Auguri", eh? Io, alle signorine simpatiche come lei, non scrivo mai meno che "Con molto affetto, incantato dalla sua presenza". Adesso vedrà cosa ho intenzione di fare… — le presi l’album e cominciai a scorrerne le pagine.
— Capo — si affrettò a interrompere Dak — bisogna far presto.
— Calma — gli ordinai, senza alzare la testa. — Tutta la nazione marziana può aspettare, se necessario, quando si tratta di una giovane dama. — Porsi l’album a Penny. — Per favore, vuol prendere nota delle misure di questo album? E ricordarmi di inviare una fotografia con autografo delle dimensioni adatte perché la signorina possa incollarla? Debitamente firmata, è chiaro.
— Sì, onorevole Bonforte.
— Va bene così, signorina Deirdre?
— Ciampoli!
— Allora, d’accordo. E grazie per avermelo chiesto. Ora credo che possiamo accomiatarci, capitano. Signor Commissario, quella è la nostra vettura?
— Sì, onorevole. — Scosse la testa e aggiunse: — Temo che abbia convertito un membro della mia famiglia alle sue eresie espansioniste. Le pare una cosa sportiva? È come sparare a un’anatra di gesso, non trova?
— Così imparerà a non farle frequentare cattive compagnie… non le pare, signorina Deirdre? — Scambiai con loro un’altra stretta di mano. — Grazie per essere venuto ad accoglierci, signor Commissario. Mi scusi, ora, ma non vorrei arrivare in ritardo.
— Ma certo. Sono lieto di averla potuta salutare.
— Grazie, ancora, signor Bonforte!
— Grazie a lei, cara.
Mi volsi lentamente per non apparire scattante o nervoso alla stereovisione. C’erano un gruppo di fotografi, operatori stereo e così via, e molti giornalisti. Bill si stava occupando di rispondere alle domande dei giornalisti e, mentre mi allontanavo con i miei fidi, mi salutò: — A più tardi, Capo — e poi riprese a parlare con uno della stampa. Rog, Dak e Penny mi seguirono nella vettura. C’era la solita folla eterogenea degli spazioporti, non tanta come quella degli spazioporti della Terra, ma abbastanza numerosa. Non mi preoccupavo della gente, visto che Boothroyd non aveva mostrato il minimo dubbio in mia presenza, anche se, sicuramente, molti dei presenti sapevano che io non potevo essere Bonforte.
Ma quelli non m’interessavano. Infatti, se mai avessero pensato di accusarmi, avrebbero automaticamente accusato anche se stessi.
La vettura era una "Rolls extraterra" pressurizzata, ma non mi tolsi la maschera dell’aria perché avevo visto che anche gli altri continuavano a tenerla. Io occupai il sedile di destra, Rog mi si mise accanto, e Penny sedette vicino a lui, mentre Dak cercava di avvolgere le sue lunghe gambe intorno a un seggiolino ribaltabile. Il conducente si volse a guardarci dietro il vetro divisorio, poi avviò il motore.
Rog disse piano: — Ho avuto paura per un momento.
— Non c’era niente di cui preoccuparsi — gli risposi. — E adesso per favore fate tutti silenzio perché debbo ripassare il discorso.
In realtà desideravo solo guardare il panorama marziano; il discorso lo sapevo perfettamente. Il conducente costeggiò il confine settentrionale del Campo, superando alcuni depositi di merci su cui lessi i nomi delle società di navigazione: Verwijs Trading Company Diana Outlines, Ltd., Triplanetaria, I.G. Farbenindustrie. Si vedevano altrettanti uomini che marziani. Noi terricoli abbiamo l’impressione che i marziani siano lenti come serpenti, e in effetti lo sono sul nostro pianeta, dove la gravità è superiore. Ma bisogna vederli sul loro mondo, dove si muovono rapidamente, ritti sui loro piedistalli, con la facilità di una pietra che schizza sull’acqua.
Alla nostra destra, a sud, oltre lo spazioporto, l’argine del Grande Canale delimitava l’orizzonte (un orizzonte troppo vicino, a paragone di quello della Terra) senza lasciar scorgere l’altra riva. Diritto davanti a noi sorgeva il Nido di Kkkah, con l’aspetto d’una città fatata. Stavo osservandolo, e lasciavo veleggiare lo spirito davanti alla sua bellezza fragile, quando Dak si mosse senza preavviso.
Sulla strada non c’era più il traffico intenso che avevamo incontrato vicino ai dock delle compagnie di navigazione, ma di fronte a noi c’era un’altra vettura che ci stava venendo addosso. L’avevo vista anch’io, ma non le avevo prestato un’attenzione particolare. Dak, invece, doveva evidentemente stare all’erta, prevedendo qualche possibile fastidio; quando l’altra macchina ci fu giunta vicina, egli aprì con un movimento brusco il vetro divisorio che ci separava dal conducente, afferrò con una mano il volante e con l’altro braccio prese per il collo l’uomo, tirandolo all’indietro. Fece una brusca sterzata a destra, evitando per un pelo lo scontro con l’altra vettura, poi sterzò di nuovo a sinistra, e per poco non uscimmo di strada. Sarebbe stata una cosa molto spiacevole, perché ormai eravamo fuori del Campo e in quel punto l’autostrada correva a filo del canale.
Un paio di giorni prima, all’Eisenhower, non ero stato molto utile a Dak, ma quella volta ero disarmato e non mi aspettavo che succedessero guai. Questa volta, sulla vettura che ci portava al Nido di Kkkah, anche se ero disarmato come allora, mi comportai decisamente meglio. Dak era già abbastanza occupato a cercar di tenere la macchina sulla strada, sporgendosi dal suo seggiolino alle spalle del conducente, tutto teso in avanti. Il conducente stesso, che era stato colto di sorpresa, ora si era ripreso e si stava divincolando per togliere il volante dalla mano di Dak.
Anch’io mi buttai in avanti, circondai il collo dell’uomo con il braccio sinistro e gli schiacciai il pollice della destra sulla schiena. — Una sola mossa e sei spacciato! - Il tono di voce apparteneva al "cattivo" del Gentiluomo di seconda mano. Anche la frase era tratta dal suo copione. Il mio prigioniero si calmò subito.
— Rog, cosa stanno facendo? — domandò con urgenza Dak.
Clifton si volse a guardare, poi lo informò: — Stanno voltando.
— Bene — ribatté Dak. E a me: — Capo, continui a tenerlo sotto tiro mentre prendo il suo posto. — Così dicendo scavalcò il sedile anteriore, cosa piuttosto difficile, data la lunghezza delle sue gambe e l’affollamento dell’abitacolo della vettura. S’infilò al posto di guida e disse con brio: — Sfido chiunque a raggiungere una Rolls su una strada come questa… — Affondò il piede sull’acceleratore, e la grossa vettura scattò bruscamente in avanti. — Com’è dietro di noi, Rog?
— Hanno appena finito di voltare.
— Bene. Cosa ne facciamo di questo bell’elemento? — chiese, indicando l’ex conducente. — Lo buttiamo fuori del finestrino?
La mia vittima protestò sonoramente: — Non ho fatto niente! — Io gli premetti il pollice contro le costole e lui si zittì subito.
— Oh, non hai fatto niente, poverino! — motteggiò Dak, senza distogliere lo sguardo dalla strada. — Stavi solo cercando di provocare un piccolo scontro… quel che basta per far arrivare l’onorevole Bonforte in ritardo all’appuntamento. Se non mi fossi accorto che stavi rallentando per non farti troppo male, saresti anche riuscito a farcela. Te n’è mancato il coraggio, eh? — Prese una curva a velocità folle; le gomme fischiavano e il giroscopio sudava per tenerci ritti. Poi domandò:
— Come va la situazione, Rog?
— Hanno rinunciato a seguirci, credo…
— Ne ero sicuro. — Dak non rallentò. Credo che stessimo andando per lo meno a trecento all’ora. Proseguì: — Mi chiedo se oseranno tirarci una bomba con uno dei loro sulla vettura. Cosa ne pensi, amico? Sarebbero disposti a sacrificarti?
— Non so di cosa sta parlando. Avrete tutti dei fastidi, per quello che mi fate.
— Ma davvero? La parola di quattro persone rispettabili contro la parola di un avanzo di galera come te? Non vorrai mica farci credere di non essere un deportato? Comunque, l’onorevole Bonforte preferisce che guidi io, e certo tu hai piacere di usargli questa gentilezza, vero? — La ruota passò sopra qualcosa di non più grosso d’un sassolino, ma su quella strada liscia come il vetro, il sobbalzo fece quasi finire me e il mio prigioniero a sbattere la testa contro il soffitto. — "L’onorevole Bonforte!" — Il prigioniero pronunciò queste parole con il tono di una frase sconveniente.