Rimasi a sedere parecchi minuti centellinando la bibita e domandandomi cosa potesse essere successo al mio amico spaziale. Avevo nutrito la speranza che la sua ospitalità potesse estendersi anche a un invito a pranzo e, se gli fossi riuscito abbastanza simpatico, magari anche a un piccolo prestito temporaneo. Tolto lo spaziale, le prospettive che mi rimanevano erano tutt’altro che rosee, debbo ammetterlo. Le ultime due volte che avevo cercato di mettermi in contatto con il mio agente, la sua segreteria visifonica automatica si era limitata a registrare la comunicazione, e inoltre, quella sera, se non infilavo la moneta nella porta non sarei neppure potuto entrare nella mia stanza… fino a quel punto erano scese le mie azioni: ridotto a dormire in un bugigattolo a gettone…
Nel bel mezzo delle mie melanconiche riflessioni, un cameriere venne a toccarmi il braccio.
— Una chiamata per lei, signore.
— Eh? Bene, amico. Vuoi portarmi l’apparecchio al tavolo?
— Spiacente, signore, ma è una chiamata non trasferibile. Cabina 12, nel corridoio.
— Ah, grazie — risposi, con tutto il calore di cui fui capace, dal momento che non avevo un soldo di mancia da dargli. Nell’andare alla cabina badai bene a girare al largo dai marziani.
Capii subito perché la chiamata non potesse venir trasferita al tavolo: la cabina numero 12 era del tipo a massima sicurezza: audio, video e allarme automatico contro le interferenze. Sullo schermo non compariva alcuna immagine; il video non si mise a fuoco neppure quando fui entrato richiudendomi l’uscio alle spalle. Rimase lattiginoso fin quando non mi sedetti e accostai la faccia entro il campo di ripresa, allora si schiarì e mi trovai a fissare l’immagine del mio amico spaziale.
— Mi scusi se l’ho piantata in asso — disse in fretta — ma avevo molta premura. Desidero che venga subito nella stanza 2106 dell’Eisenhower.
Non mi diede nessuna spiegazione. L’Eisenhower non è un albergo da spaziali più di quanto lo sia il Casa Mañana. La faccenda cominciava a puzzare. Non è una cosa normale pescare un estraneo in un bar e poi invitarlo in una stanza d’albergo… non uno dello stesso sesso, almeno.
— Perché? — domandai.
Lo spaziale assunse l’espressione caratteristica degli uomini abituati a farsi ubbidire senza discutere; lo studiai con interesse professionale… non è un’espressione che denoti ira; è piuttosto come l’aspetto del cielo che prelude a un temporale. Ma riprese subito il controllo.
— Lorenzo — disse — non c’è tempo per spiegare, adesso. Accetterebbe un lavoro?
— Vorrà dire un contratto teatrale — risposi lentamente. Per un istante orribile avevo creduto che volesse offrirmi… sì, avrete capito, un impiego, tipo banca. Fino a quel momento ero sempre riuscito a mantenere immacolata la mia dignità di artista, nonostante le frecciate e i tiri mancini della sorte avversa.
— Sì, un contratto teatrale, certo — si affrettò a rispondermi. — Si tratta di una cosa per la quale ci occorre il miglior attore disponibile.
Mi dominai perché non mi si leggesse in faccia il sollievo che provavo. In verità sarei stato disposto ad accettare un lavoro qualsiasi nel campo dello spettacolo; avrei anche fatto il balcone in Giulietta e Romeo, pur di essere su un palcoscenico. Ma non è decoroso mostrarsi ansiosi.
— Di che tipo di contratto si tratterebbe? — mi limitai a domandare. — In questo periodo ho un mucchio d’impegni.
Tagliò corto. — Non posso spiegarle per visifono. Può darsi che lei non lo sappia, ma non esiste nessun circuito d’allarme che non possa venire neutralizzato; è sufficiente avere le apparecchiature adatte. Si sbrighi a venire.
L’amico sembrava piuttosto interessato; quindi potevo permettermi di fare il prezioso.
— Via! — protestai. — Ma per chi mi prende? Un cameriere? O un dilettante che smania per fare da comparsa con la lancia in mano? Io sono il Grande Lorenzo! - e così dicendo alzai il mento e assunsi un’aria offesa. — Quanto offrirebbe?
— Uh… Maledizione! Non posso correre il rischio di spiegarmi per visifono. Qual è la sua paga contrattuale?
— Come sarebbe a dire? Vuole sapere quanto sono solito prendere per recita?
— Sì, sì!
— Per una singola rappresentazione? Alla settimana? Per un contratto in esclusiva?
— Uhm… non saprei. Mi dica quanto guadagna al giorno.
— Il minimo, per una singola rappresentazione, sono cento crediti.
Non dicevo bugie. Sì, a volte ero stato costretto a dare delle bustarelle scandalose per assicurarmi la parte, ma sulla ricevuta non era mai apparsa retribuzione inferiore. C’è un certo standard da mantenere. Piuttosto che accettare una squalifica professionale preferivo morir di fame.
— Benissimo — si affrettò a rispondere lui. — Cento crediti in contanti, uno sull’altro, appena sarà arrivato qui. Ma svelto, faccia presto!
— Eh? — Mi stavo rendendo conto con disappunto che avrei potuto chiederne duecento; magari duecentocinquanta. — Ma non ho ancora detto di accettare il contratto — aggiunsi.
— Non importa. Ne discuteremo quando sarà qui. Quei cento saranno suoi anche se non accetterà. E se accetterà, li consideri un extra, fuori della paga. E adesso, vuole chiudere la comunicazione e venir qui al più presto?
— Subito, signore — risposi con un inchino. — Mi attenda un attimo.
Per fortuna l’Eisenhower non dista molto dal Casa, perché non avevo neppure gli spiccioli per il biglietto del metrò. Comunque, anche se l’arte di far due passi a piedi era ormai caduta in disuso, era un’arte che sapevo giustamente apprezzare e che, inoltre, in quell’occasione, mi dava la possibilità di mettere ordine nei miei pensieri. Non ero uno sciocco; mi rendevo benissimo conto che quando un tizio è ansioso di mettere in mano a un altro tizio una bella sommetta, è bene stare molto attenti, perché c’è sotto quasi certamente qualcosa d’illegale o di pericoloso, o di tutt’e due. Non che io fossi un fanatico della legalità per la legalità; ero d’accordo col poeta che la Legge è spesso idiota. Ma per lo più avevo sempre rigato diritto.
Rendendomi conto che i dati di cui disponevo non erano sufficienti a trarre una conclusione non ci pensai più e, gettatami la cappa sulla spalla, mi avviai, godendo il tepore di quell’autunno mite e gli acri odori della metropoli. Giunto a destinazione, pensai bene di evitare l’ingresso principale e presi un montacarichi dal sotterraneo al ventunesimo piano, perché avevo il vago dubbio che fosse preferibile non farmi riconoscere. Comparve all’uscio il mio amico voyageur. - Ce ne ha messo di tempo — brontolò, facendomi entrare.
— Davvero? — Lasciai cadere la questione e mi guardai in giro. Era un appartamento di lusso, come del resto mi aspettavo, ma tutto in disordine, e inoltre c’erano in giro un mucchio di tazzine da caffè e di bicchieri sporchi; non ci voleva molto acume per capire che attualmente ero l’ultimo di una numerosa serie di visitatori. Sdraiato su un divano, con gli occhi fissi su di me e con una certa espressione irritata sul volto, c’era anche un altro individuo; a occhio e croce, nel dubbio, classificai provvisoriamente anche lui come uno spaziale. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, ma nessuno ci presentò.
— Be’, finalmente è arrivato. Veniamo al sodo.
— D’accordo. Il che mi fa ricordare — aggiunsi — che si era parlato di un compenso o acconto.
— Ah, già. — E volgendosi al tizio che stava sul divano: — Jacques, pagalo.
— Perché?
— Pagalo!
Ecco chi comandava; ne fui sicuro in quel momento, anche se, come dovevo poi imparare, c’era poco da dubitarne, quando ci si trovava in presenza di Dak Broadbent. L’altro si affrettò ad alzarsi, sempre con un’espressione irritata, e mi contò un cinquanta e cinque da dieci. Io li presi con fare disinvolto, senza contarli, e dissi: — Sono a vostra disposizione, signori.
Il mio amico del bar si morse il labbro con un po’ di nervosismo.
— Per prima cosa voglio che lei mi giuri solennemente di non far mai parola, neanche nel sonno, di questo lavoro.