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Dak non aprì bocca per qualche istante, poi disse: — Credo sia meglio non buttare ancora fuori quest’individuo, Capo. Adesso accompagniamo lei al luogo della cerimonia, e poi pigliamo lui e lo portiamo in qualche posticino tranquillo. Sono sicuro che ci racconterà un mucchio di cose, a chiedergliele con gentilezza.

Il mio prigioniero cercò di sfuggirmi, ma io strinsi la presa sul collo e affondai più forte il pollice nella sua schiena. Forse un dito pollice non fa lo stesso effetto della canna di una pistola, ma nessuno è disposto a controllarlo a proprio rischio. Lui si mise immediatamente tranquillo. — Non oserete iniettarmi le droghe! — esclamò, con tono di sfida.

— Oh, no, che diamine! — gli rispose Dak, fingendo sorpresa. — Sarebbe illegale! Piuttosto… Penny, hai mica una forcina?

— Sì, certo, Dak. — Sembrava un po’ perplessa, ed ero perplesso anch’io. Però lei non sembrava affatto spaventata, mentre io lo ero certamente.

— Benissimo. Senti, cocco — riprese Dak, rivolgendosi al prigioniero — hanno mai provato a infilarti una forcina sotto le unghie? Dicono che riesca perfino a spezzare il comando ipnotico di non parlare. Agisce direttamente sul subcosciente, o qualcosa di simile. Il guaio è che il paziente grida in modo poco simpatico, diventa molto fastidioso. Così adesso ti portiamo tra le dune del deserto, dove potrai dare fastidio solo agli scorpioni marziani. Dopo che avrai parlato (e qui viene il bello) ti lasceremo libero, non ti faremo niente e sarai padrone di tornartene a piedi in città. Però, attento bene, se starai buono e ti dimostrerai volenteroso ti daremo anche un premio: ti lasceremo la maschera dell’aria per il ritorno.

Dak tacque, e per un istante si udì solo il lamento della sottile aria marziana sul tetto della vettura. Su Marte, un essere umano può anche arrivare a percorrere duecento metri senza maschera dell’aria, se ha il cuore buono. Mi sembra di avere letto di un caso in cui un uomo era riuscito a percorrere quasi un chilometro, prima di morire. Diedi un’occhiata all’indicatore sul cruscotto e vidi che distavamo ventitré chilometri da Goddard City.

— Onestamente, vi giuro di essere all’oscuro di tutto — disse alla fine il prigioniero. — Mi hanno pagato solo perché mi scontrassi con l’altra macchina.

— Cercheremo allora di stimolare un po’ la tua memoria. — Le porte della città marziana erano davanti a noi, ormai, e Dak rallentò l’andatura. — Capo, lei è arrivato. Rog, meglio che tu prenda la pistola e liberi il Capo del nostro ospite.

— Sì, Dak — rispose Rog. Si portò accanto a me e premette sulle costole del malcapitato, sempre con il solo pollice. Io mi spostai. Dak mise il freno a mano, e si fermò proprio davanti alle porte della città.

— Quattro minuti di anticipo! — esclamò soddisfatto. — Ottima vettura, mi piacerebbe averne una. Rog, lascia un po’ la presa e fammi posto.

Clifton obbedì, e Dak colpì di taglio, con mano esperta, il collo dell’uomo. Il conducente svenne e si afflosciò sul sedile. — Così starà più tranquillo mentre lei si avvia verso la città, Capo; non possiamo rischiare noie impreviste da parte sua, proprio qui che ci possono vedere dal nido. Vediamo quanto manca.

Osservammo l’orologio. Mancavano ancora tre minuti e mezzo all’ora stabilita. — Lei dovrà essere puntualissimo — mi disse Dak. — Sa, né in ritardo né in anticipo; dovrà spaccare il secondo.

— Certo — rispondemmo all’unisono io e Clifton.

— Le occorreranno trenta secondi per salire i gradini, più o meno. Come pensa di impiegare i tre minuti che le restano?

Trassi un respiro. — Cercando di calmarmi i nervi — risposi.

— I suoi nervi sono perfettamente a posto. Gli ha giocato un bel tiro, prima. Auguri, vecchio marpione! Fra due ore lei sarà già sulla via del ritorno, con tanti di quei quattrini da sfondarle le tasche. Ormai siamo sulla dirittura finale.

— Lo spero anch’io. È stata una vera faticaccia. Ehm, Dak?

— Sì?

— Scenda un attimo con me. — Uscii dalla vettura e gli feci segno di seguirmi poco distante. — Cosa succederebbe se commettessi un errore, là dentro?

— Come? — ribatté Dak, stupito. — Lei non commetterà nessun errore — aggiunse ridendo, ma il suo tono suonava leggermente forzato. — Penny mi assicura che lei ha mandato giù la parte alla perfezione.

— Sì, ma se m’inceppassi?

— Ma no, non s’incepperà affatto. So benissimo quel che si prova in casi come il suo. L’ho provato anch’io al mio primo atterraggio senza istruttore. Ma appena incominciate le manovre, mi sono trovato così indaffarato a far tutto quello che c’era da fare che non mi è rimasto tempo per sbagliare.

— Dak! — era la voce di Clifton, resa fioca dall’aria marziana, più sottile. — Dak, hai controllato l’ora?

— C’è un mucchio di tempo. Manca ancora più di un minuto.

— Onorevole Bonforte! — era Penny che parlava. Mi voltai e ritornai alla vettura. Lei uscì e mi tese la mano. — Buona fortuna, onorevole Bonforte.

— Grazie, Penny.

Anche Rog mi volle stringere la mano, e Dak mi diede una pacca sulle spalle. — Mancano trentacinque secondi. È meglio che lei s’incammini.

Feci segno di sì col capo e m’avviai per la gradinata. Raggiunsi la sommità, e doveva essere esattamente il momento convenuto, secondo più secondo meno, perché i pesanti portali cominciarono ad aprirsi proprio quando io mi trovavo a qualche passo di distanza. Trassi un profondo respiro e imprecai contro quella maledetta maschera dell’aria.

Poi entrai nella parte.

Non importa assolutamente se siete sulla scena da anni: l’ingresso sul palcoscenico, quando il sipario si alza su una prima, è sempre tremendo. Vi toglie il respiro e vi manda il cuore in gola. D’accordo, conoscete a menadito il copione. D’accordo, avete chiesto all’impresario di controllare l’umore del pubblico. D’accordo, l’avete già recitato altre volte. Ma tutte queste belle cose non contano: in quel primo momento in cui entrate in palcoscenico sapendo che tutti gli occhi sono puntati su di voi, che tutti stanno aspettando le vostre parole, stanno attendendo che facciate qualcosa, magari sperando che ingarbugliate le battute… be’, la paura si fa sentire. Ecco perché ci sono i suggeritori.

Guardai, vidi i miei spettatori, e l’impulso fu quello di scappare a gambe levate. Per la prima volta in trent’anni avevo paura del pubblico.

Gli appartenenti al nido mi si stendevano intorno a perdita d’occhio. Davanti a me c’era uno stretto passaggio, che si apriva in mezzo ai marziani come un sentiero. Dalle due parti i marziani erano migliaia, fitti come mazzi d’asparagi. Sapevo che la prima cosa da fare era d’incamminarmi per quel passaggio, né troppo in fretta né troppo lentamente, e raggiungere l’altra estremità, dove c’era una gradinata che portava al nido interno.

Ma non riuscivo a staccare i piedi da terra.

Allora dissi a me stesso: — Dai, Lorenzo, tu sei John Joseph Bonforte. Sei già venuto qui decine di volte. Questa gente è amica tua. Sei qui perché lo desideri e perché lo desiderano anche loro. Quindi incamminati per quel corridoio. Ta-ta-ta-ta…! - (Sull’aria della marcia nuziale di Mendelssohn).

Incominciai a sentirmi di nuovo Bonforte. Sì, ero Joe Bonforte, l’affabile zio della politica interplanetaria, e avevo la precisa intenzione di condurre a buon fine la cerimonia, per l’onore e la sicurezza della mia razza e del mio pianeta, e per quelli dei miei amici marziani. Trassi un profondo respiro, e feci il primo passo.

Fu proprio quel profondo respiro a salvarmi, perché così facendo aspirai la celestiale fragranza marziana. Migliaia e migliaia di marziani vicini l’uno all’altro… sembrava che qualcuno avesse rovesciato una scatola intera di "Passione tropicale". La convinzione di star annusando quel profumo era talmente forte che mi voltai involontariamente a vedere se per caso Penny mi avesse seguito fin lì. Mi sembrava di sentire il tepore della sua mano nella mia.