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M’avviai zoppicando lievissimamente lungo quello stretto corridoio, cercando di procedere con la velocità con cui procede un marziano sul suo pianeta natale. La folla mi si chiudeva alle spalle. Ogni tanto qualche piccolo si staccava dagli adulti e mi scivolava davanti. Per "piccoli" intendo i marziani dopo la scissione, che pesano la metà di un adulto e sono alti tre quarti della sua altezza: Siccome non escono mai dal nido, noi terrestri tendiamo a dimenticare che esistono anche i piccoli dei marziani. Dopo la scissione, ci vogliono almeno cinque anni perché un marziano riacquisti le sue dimensioni normali, perché la sua intelligenza ritorni quella di prima, e insieme ad essa torni la memoria. Durante questo periodo di transizione, si può dire che il piccolo marziano sia un perfetto idiota. Prima la ridisposizione genetica e poi la rigenerazione portate dalla coniugazione e dalla scissione lo mettono fuori combattimento per molto tempo. Una delle bobine di Bonforte conteneva una completa lezione su questi argomenti biologici, accompagnata da alcune riprese stereo di mediocre qualità.

I piccoli, essendo degli allegri idioti, non hanno né i doveri di correttezza degli adulti né le loro responsabilità. Tutti gli adulti provano per loro un affetto smisurato.

Due dei piccoli, entrambi della stessa taglia, la minima, e che a me sembravano perfettamente identici, scivolarono fuori della massa dei marziani e si bloccarono davanti a me, proprio come un cagnolino balordo può fermarsi in mezzo alla strada. Non avevo molte possibilità: o mi fermavo o li calpestavo.

Così mi fermai. Si avvicinarono ancora di più a me, sbarrandomi completamente il passo, e cominciarono a estroflettere pseudoarti, mentre intanto cinguettavano animatamente tra loro. Non riuscivo assolutamente a capire cosa stessero dicendo. In meno che non si dica si misero a tirarmi le falde degli abiti e a farmi scivolare i palpi nelle tasche.

Intorno a me, la folla era così fitta che non potevo assolutamente aggirare i due piccoli marziani. Mi trovavo tra l’incudine e il martello. Per prima cosa, erano così carini che mi facevano davvero venire la voglia di frugarmi in tasca per vedere se c’era una caramella per loro… ma, cosa assolutamente più importante, sapevo anche che la cerimonia dell’adozione doveva rispettare rigorosamente i suoi tempi, come un balletto. Se non mi affrettavo a muovermi, rischiavo di commettere la stessa infrazione classica che aveva reso famoso Kkkahgral il Giovane.

Ma i piccoli non avevano intenzione di allontanarsi da me. Uno di loro aveva trovato il mio orologio.

Trassi un respiro e fui quasi sopraffatto dal profumo. Poi decisi di fare una scommessa con me stesso. Scommisi che l’azione di chinarsi a baciare un bambino fosse una costante universale valida in tutta la Galassia, e che fosse perfino più importante del concetto marziano di correttezza. Così m’inginocchiai, per essere al loro livello, e li coccolai per alcuni istanti, circondandoli con le braccia e dando loro amorevoli pacche sulle scaglie.

Poi mi rialzai e dissi piano: — Adesso basta, cari. Devo proprio andare — il che consumò gran parte della mia riserva di marziano elementare.

I piccoli continuavano a starmi aggrappati, e io li scostai con attenzione ma anche con gentilezza; così potei proseguire lungo il corridoio, cercando d’affrettarmi per recuperare il tempo perduto. Per i primi passi avanzai rigido, ma non sentii nessuna verga fulminarmi alla schiena, e incominciai a pensare che la mia infrazione della correttezza marziana non avesse raggiunto il grado della pena capitale. Arrivai alla gradinata che portava al nido interno e cominciai a scenderla.

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La riga di asterischi che vedete qui sopra rappresenta la cerimonia dell’adozione. Perché? Perché riguarda solo i membri del Nido di Kkkah. È una questione di famiglia.

Per fare un esempio: un mormone può avere un mucchio di amici carissimi che non appartengono alla sua setta religiosa: ma credete che questa amicizia arrivi al punto di farli entrare nel Tempio di Salt Lake City? No, nessun estraneo c’è mai entrato né mai c’entrerà. I marziani vanno con disinvoltura da un nido all’altro, ma i nidi interni sono riservati solo agli appartenenti alla famiglia. Nemmeno le loro spose-coniugate godono di questo privilegio. Io quindi non ho il diritto di descrivere i dettagli della cerimonia dell’adozione avvenuta nel nido interno, non più di quanto un affiliato a una loggia massonica abbia il diritto di riferire i dettagli delle cerimonie che hanno luogo nella loggia stessa.

La cerimonia, nelle linee generali, è uguale per tutti i nidi, e la parte che mi spettò è uguale per tutti i candidati. Il mio padrino, uno dei più vecchi amici marziani di Bonforte, Kkkahrrreash, mi si fece incontro sulla soglia, minacciandomi con la verga. Io gli chiesi che mi uccidesse subito se m’ero reso colpevole di qualche mancanza. A essere sinceri, debbo dire che non lo riconobbi, nonostante ne avessi studiato attentamente la fotografia. Ero però sicuro che fosse lui, perché sapevo che così richiedeva il rituale.

Dopo questa dichiarazione di assoluta fedeltà alla Mamma, alla Casa, ai Doveri di Cittadino, e l’assicurazione di avere frequentato regolarmente il Catechismo, ebbi finalmente il permesso d’entrare. ’Rrreash mi guidò per tutte le stazioni di quella via crucis. Mi vennero poste domande e io fornii risposte. Ogni parola, ogni gesto erano stilizzati come quelli di un antico dramma cinese, e io avevo imparato tutto a memoria, naturalmente, altrimenti non avrei proprio saputo come cavarmela. Il più delle volte, infatti, non capii quello che dicevano, e per buona parte del tempo non seppi neppure il significato dei suoni che mi uscivano dalle labbra. Sapevo solo riconoscere le prime battute pronunciate da chi m’interrogava, e rispondevo con frasi imparate a memoria. Il tutto era reso più difficile dalla scarsa illuminazione, preferita dai marziani: procedevo a tastoni come una talpa.

Una volta mi era successo di recitare con Hawk Mantell, poco prima che morisse, quando era già completamente sordo. Lui sì, che era un vero attore! Non poteva neppure usare uno strumento acustico perché il suo nervo uditivo era del tutto morto. Per buona parte del tempo riusciva a leggere la battuta sulle labbra del compagno, ma non sempre la cosa gli era possibile. Egli stesso però aveva fatto da regista, e aveva sincronizzato tutta la recitazione in modo perfetto. Ricordo d’averlo visto recitare una battuta, allontanarsi di qualche passo, poi voltarsi di botto e sparare una risposta fulminante a una frase del compagno che non poteva assolutamente avere udito, con un’esattezza che spaccava il decimo di secondo.

Le cose si svolsero proprio come quella volta con Mantell. Io sapevo la mia parte, e la recitai. Se poi gli altri, i marziani, si siano sbagliati a recitare qualche pezzo della loro, io non c’entro.

Mi sentivo un po’ nervoso perché c’erano sempre almeno una mezza dozzina di verghe puntate contro di me, per tutto il tempo della cerimonia. Continuavo a ripetermi che non mi avrebbero certo fulminato per un banale errore di recitazione: dopotutto io ero solo un povero goffo essere umano, e come minimo mi dovevano dare la sufficienza per incoraggiamento. Ma non ne ero poi tanto sicuro.

Dopo un tempo che mi parve interminabile e che invece non lo fu affatto (in quanto tutta la cerimonia durò esattamente un nono di rotazione marziana) ci dedicammo al banchetto.

Non so che cosa mi propinarono, e forse è meglio che non lo abbia mai saputo. Comunque non mi avvelenarono.

Quindi gli anziani fecero un sacco di discorsi. Io risposi col mio discorso d’accettazione, ed essi mi diedero un nome marziano e una verga. Con ciò ero diventato un marziano anch’io.

Non sapevo come si usasse l’arma, e sarei rimasto imbarazzato nel dover pronunciare il mio nome, ma l’importante era che da quel momento in poi era il mio nome legale su Marte, e che io ero legalmente un membro della più aristocratica famiglia marziana… il tutto esattamente cinquantadue ore dopo che un terricolo, in un momento in cui la sua fortuna era giunta al livello più basso, aveva speso l’ultimo mezzo credito pagando da bere a un estraneo nel bar del Casa Mañana.