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Credo che ciò dimostri più che a sufficienza come sia assolutamente sconsigliabile attaccare bottone con gente che non si conosce.

Me ne andai non appena mi fu possibile. Dak mi aveva preparato un discorsetto in cui dichiaravo che per motivi di correttezza mi era necessario partire subito, ed essi mi lasciarono andare. Mi sentivo nervoso come se mi fossi trovato in piena notte nel dormitorio di un convento di monache: ormai il cerimoniale che conoscevo non poteva più guidarmi. Voglio dire che anche il loro comportamento sociale quotidiano è irto di abitudini rigorosissime, molto pericolose, e che io non sapevo i passi giusti da fare. Così recitai la mia scusa e uscii. ’Rrreash e un anziano mi accompagnarono, e io mi concessi il lusso di fare qualche carezza a un’altra coppia di piccoli marziani che incontrammo per la strada (o forse si trattava della stessa coppietta di prima). Quando fui giunto alle porte, i due anziani squittirono un saluto in inglese e mi lasciarono solo; i portali si richiusero alle mie spalle, e io tirai un gran respiro di sollievo.

La Rolls mi aspettava nello stesso punto in cui l’avevo lasciata: scesi di corsa la gradinata. Una portiera si spalancò, e rimasi stupito nel vedere che a bordo c’era Penny, sola. Stupito, sì, ma tutt’altro che dispiaciuto. Le gridai: — Ehi, Ricciolina! Ce l’ho fatta.

— Ne ero sicura — rispose lei.

Le feci un saluto scherzoso alla spada con la mia verga marziana. — Mi chiami Kkkahjjjerrr — le dissi, spruzzando il sedile anteriore con la seconda sillaba.

— Attento con quell’arnese! — fece lei, nervosa.

Le scivolai accanto, sul sedile anteriore, domandandole: — Mi sa dire come si usano queste verghe? — Stava sopravvenendo la reazione dopo la tensione di prima, e io mi sentivo esausto ma di buonumore. Avevo voglia di bere almeno tre cicchetti e di mandare giù una bistecca enorme, per poi star sveglio tutta la notte ad aspettare i primi giornali del mattino con le recensioni della prima.

— No, non so — rispose lei. — Ma stia attento.

— Credo che basti solo schiacciare qui — e così dicendo, lo feci, e subito si disegnò sul parabrezza un foro rotondo largo un pugno, e l’interno della macchina non fu più pressurizzato.

Penny mandò un’esclamazione soffocata. Io mormorai: — Oh… mi spiace. Meglio che la metta via finché Dak non mi abbia insegnato a usarla.

Penny sospirò. — Sì. Stia solo attento a dove la punta — mi consigliò, sempre allarmata, avviando la macchina a una tale velocità da farmi comprendere come non ci fosse solo Dak ad avere il piede pesante sull’acceleratore.

Il vento entrava sibilando dal foro che avevo prodotto nel parabrezza. Domandai: — Perché tanta premura? Ho bisogno di tempo per studiare le risposte per la conferenza stampa. Le ha con lei? E gli altri, dove sono? — Solo allora m’era tornato alla mente l’autista che avevamo fatto prigioniero. Non ci avevo più pensato da quando si erano spalancati i portali del nido.

— No. Non sono potuti venire.

— Penny, ma insomma, cosa succede? — non potei far a meno di chiederle, mentre mi stavo domandando se avrei potuto tenere una conferenza stampa senza previe istruzioni in merito. Forse avrei potuto limitarmi a raccontare qualcosa sulla cerimonia dell’adozione; lì sarei stato sul sicuro.

— Si tratta di… l’onorevole Bonforte… l’hanno trovato!

6

Solo allora notai che non mi aveva ancora chiamato una sola volta, come prima, "onorevole Bonforte". Ovviamente non poteva più farlo, dal momento che non ero più lui. Ero tornato a essere Lorenzo Smythe, l’attore ingaggiato per impersonarlo.

Mi lasciai andare contro lo schienale, sospirando, e cercai di rilassarmi. — Così, finalmente, è finita… E ce l’abbiamo fatta! — esclamai, con la sensazione di essermi tolto un grosso peso dalle spalle. Non m’ero accorto di quanto fosse grosso il peso fino al momento in cui non me lo tolsi. Persino la mia gamba "zoppa" aveva smesso di farmi male. Allungai una mano a battere la manina con cui Penny teneva il volante, e dissi con la mia voce: — Sono proprio contento che sia finita. Comunque lei mi mancherà, gliel’assicuro. Ci avevo fatto l’abitudine ad averla insieme con me. Lei è come una collega, ormai. Ma purtroppo è sempre così; quando s’incomincia a essere un po’ affiatati, la stagione finisce e la compagnia si scioglie. Spero comunque di poterla rivedere ancora qualche volta.

— Lo spero anch’io.

— Immagino che Dak abbia già studiato qualche trucco per tenermi nascosto e per farmi poi salire di soppiatto a bordo della Tom Paine.

— Non lo so. — La sua voce aveva un timbro strano, tanto che mi voltai a guardarla e constatai subito che piangeva. Il mio cuore fece un balzo. Penny che piangeva! Piangeva perché dovevamo dividerci, forse? Non potevo crederci, tuttavia l’avrei voluto. Qualcuno potrebbe essere portato a credere che con i miei lineamenti aristocratici e le mie maniere squisite le donne mi trovino irresistibile, invece debbo confessare che purtroppo molte di loro riescono sempre a resistere facilmente al mio fascino. Penny stessa, poi, sembrava non aver mai trovato alcuna difficoltà nel farlo.

— Penny, mia cara — mi affrettai a dire. — Perché tutte queste lacrime? Finirà col mandare la macchina a fracassarsi.

— Non riesco a dominarmi.

— Be’, si sfoghi, mi dica. Cos’è che non va? Mi ha detto che l’hanno ritrovato; ma non m’ha detto i particolari. — D’improvviso m’era balenata nella mente un’orrenda supposizione. — È vivo, no?

— Si… è vivo… ma… oh, gli hanno fatto tanto male! — Scoppiò in singhiozzi, tanto che dovetti afferrare io il volante.

— Mi scusi — disse, riprendendosi subito.

— Vuole che guidi io?

— No, ora è passata. Inoltre lei non sa… cioè, voglio dire, si pensa che lei non sappia guidare la macchina.

— Come? Non dica sciocchezze. Io ne sono perfettamente capace, e credo che ormai tutte queste finzioni non abbiano più importanza… — ma m’interruppi di botto, rendendomi conto che potevano avere ancora importanza, invece. Se Bonforte era ridotto male, in modo visibile, allora non poteva certamente mostrarsi in pubblico nelle sue condizioni… e certo non un quarto d’ora dopo essere stato adottato. Forse, quindi, avrei dovuto partecipare io alla conferenza stampa e partire io ufficialmente da Marte, mentre sarebbe stato il Bonforte vero quello da imbarcare alla chetichella sull’astronave. Be’, niente di preoccupante… solo una chiamata al proscenio per un bis imprevisto.

— Penny — domandai — Dak e Rog desiderano che continui a recitare ancora per un po’? Devo andare io a parlare coi giornalisti? Oppure no?

— Non lo so. Non abbiamo avuto il tempo di far progetti.

Stavamo già avvicinandoci alla fila di dock dello spazioporto, e le gigantesche cupole pressurizzate di Goddard City erano nettamente in vista. — Penny, rallenti un po’ e mi spieghi cos’è successo, per favore. Credo d’avere il diritto anch’io di sapere qualcosa.

Il conducente aveva parlato (mi dimenticai di chiedere se il sistema della forcina fosse stato usato o no). Era stato anche lasciato libero, perché tornasse a piedi, e gli avevano permesso di tenere la maschera dell’aria. Gli altri si erano diretti di gran carriera a Goddard City, con Dak al volante. Mi sentii fortunato di essere rimasto indietro; i voyageur non dovrebbero assolutamente avere il permesso di guidare altro che le astronavi.

S’erano precipitati all’indirizzo fornito dal conducente, nella Città Vecchia, sotto la prima cupola. Credo si tratti di quel tipo di casbah che si trova in tutti i porti, dal tempo in cui i fenici cominciarono a veleggiare lungo le coste dell’Africa: un covo di deportati, di prostitute, di spacciatori di droga, di loschi trafficanti e altra feccia… un posto, insomma, in cui i poliziotti vanno sempre a due per volta.