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Risultò che il conducente aveva dato l’indirizzo giusto, ma che c’erano arrivati con qualche minuto di ritardo. La stanza era sicuramente stata usata come prigione per Bonforte, perché conteneva un letto che sembrava essere stato occupato per almeno una settimana di fila. Inoltre c’era una cuccuma di caffè ancora caldo e, avvolta in un tovagliolo sul comodino, c’era una vecchia protesi dentaria asportabile che Clifton riconobbe subito per quella di Bonforte. Ma Bonforte non c’era, e neppure i suoi rapitori.

Dak e gli altri se n’erano allora andati, con l’intenzione di mettere in atto quel piano originale che avevano comunicato anche a me: annunciare il rapimento di Bonforte come se fosse avvenuto subito dopo la sua adozione, ed esercitare pressioni su Boothroyd minacciando di rivolgersi al Nido di Kkkah. Invece avevano poi trovato Bonforte. Si erano semplicemente imbattuti in lui poco prima di uscire dalle ultime tortuose viuzze della Città Vecchia: un povero vecchio, lacero, sporco, inebetito, con la barba di una settimana e l’aspetto d’un alcolizzato. Gli uomini non l’avevano riconosciuto, ma Penny sì, e li aveva fatti fermare.

Ora, raccontandomi l’incontro, scoppiò di nuovo a piangere, perdendo il controllo della guida, tanto che per poco non andammo a sbattere contro un autoarticolato che stava uscendo da uno dei dock.

Secondo la ricostruzione più plausibile dei fatti, gli occupanti della seconda auto (cioè quella con cui avremmo dovuto scontrarci) erano ritornati a riferire l’accaduto. In seguito a ciò, gli ignoti istigatori dei nostri avversari avevano deciso che il rapimento ormai non serviva più ai loro scopi. Nonostante quanto già sapevo sulla probabile vendetta dei marziani, mi stupì che non lo avessero ucciso, semplicemente. Solo in un secondo tempo compresi che, comportandosi come si erano comportati, si erano dimostrati molto più astuti, molto più coerenti con i loro propositi, e anche molto più crudeli che non limitandosi semplicemente a ucciderlo.

— E adesso, dove si trova? — domandai.

— Dak l’ha portato all’albergo dei voyageur, nella Cupola 3.

— È là che stiamo andando?

— Non lo so. Rog si è limitato a dirmi di venire a prendere lei, poi sono spariti per la porta di servizio dell’albergo. No, non credo che possiamo correre il rischio di andare là anche noi. Non so proprio cosa fare.

— Penny, fermi la macchina.

— Come?

— Suppongo che su questa vettura ci sia un telefono. Non muoveremo un passo finché non avremo scoperto la cosa migliore da farsi, o almeno finché non avremo predisposto un piano abbastanza sensato. Sono certo di una cosa, comunque: che è mio dovere continuare a recitare la parte fino a quando Dak o Rog non avranno deciso di farmi scomparire dalla scena. Qualcuno deve pur parlare ai giornalisti. Qualcuno deve partire ufficialmente da Marte e salire sulla Tom Paine. Lei è sicura che l’onorevole Bonforte non possa ritornare in forma quel tanto che basta per poterlo fare di persona?

— Come? Oh, no, no! È assolutamente impossibile. Lei non l’ha visto, altrimenti non parlerebbe così.

— Va bene, le credo sulla parola. Allora, Penny, da questo momento io torno a essere "l’onorevole Bonforte", e lei la mia segretaria. Mi pare la cosa migliore.

— Sì… onorevole Bonforte.

— E adesso, mia cara, vuole per favore mettersi in comunicazione col capitano Broadbent?

Non riuscimmo a trovare un elenco telefonico nella macchina, e così Penny dovette chiedere il numero all’ufficio informazioni. Ma alla fine riuscì a mettersi in contatto con l’albergo dei voyageur. Io potevo sentire la conversazione da una derivazione. — Qui è il Club dei Piloti. Parla la signorina Kelly.

Coprendo il microfono con una mano, Penny mi domandò: — Devo dare il mio nome?

— Certo. Non abbiamo nulla da nascondere.

— Qui è la segretaria dell’onorevole Bonforte — disse allora lei, con tono piuttosto sostenuto. — C’è per favore il suo pilota? Il capitano Broadbent.

— Oh, certo, lo conosco benissimo. — Sentii gridare:

— Ehi! Qualcuno di voi lupi dello spazio ha visto dove si è cacciato Dak? — Dopo una breve pausa, la voce riprese:

— È nella sua stanza. Lo chiamo.

Penny disse poche parole: — Comandante? Il Capo le vuole parlare — e mi allungò il microfono.

— Parla il Capo, Dak.

— Oh… dov’è, onorevole?

— Sempre in macchina. Penny mi è venuta a prendere. Dak, mi pare di ricordare che Bill avesse organizzato una conferenza stampa. Dove?

Dopo una breve esitazione, Dak rispose: — Sono contento che lei abbia chiamato, Capo. Bill ha rinviato la conferenza. Ci sono stati… dei leggeri mutamenti nella situazione.

— Già, infatti Penny me ne ha vagamente accennato. Debbo confessare che sono contento di questo rinvio, perché mi sento molto stanco. Ho deciso di non passare la notte su terrasporca. La gamba mi ha fatto male per tutta la cerimonia, e gradirei un bel riposo, molto lungo, in caduta libera. — Personalmente detestavo di trovarmi in caduta libera, ma a Bonforte piaceva, invece. — Lei o Rog vogliate presentare le mie scuse al Commissario e sbrigare tutte le altre formalità.

— Provvederemo noi a tutto, Capo.

— Bene. Per quando potete farmi preparare un traghetto?

— La Pixie la sta già aspettando, Capo. Ha solo da recarsi all’uscita 3; ci penserò io a telefonare e a mandare una macchina da campo a prenderla.

— Benissimo. Non c’è altro.

— Non c’è altro.

Riconsegnai il ricevitore a Penny che lo appoggiò sulla forcella. — Ricciolina — dissi — non so se questa frequenza telefonica sia controllata o no, e forse c’è un dispositivo spia all’interno della vettura. In tal caso, i nostri nemici sanno già due cose: primo dove si trova Dak, e perciò anche dove si trova lui, e, secondo, quello che stiamo per fare noi due. Non le suggerisce niente questa constatazione?

Lei ci pensò un momento, poi tirò fuori il suo taccuino per la stenografia e ci scrisse: Usciamo dalla macchina.

Io feci un cenno d’assenso. Presi il taccuino e scrissi anch’io una frase: Quanto dista l’uscita 3?

Lei rispose: Ci arriviamo a piedi.

Senza parlare, aprimmo la portiera e scendemmo a terra. Penny aveva parcheggiato la vettura nel posto riservato a qualche funzionario, vicino a un deposito, in modo che non intralciasse il traffico né desse per il momento nell’occhio; senza dubbio dopo qualche tempo l’avrebbero restituita al legittimo proprietario, ma non era il caso di dare importanza a minuzie come queste.

Avevamo percorso una cinquantina di metri quando mi fermai. Mi pareva che qualcosa non andasse per il suo verso, ma non riuscivo ancora a scoprire che cosa. Non dipendeva dal tempo, certamente. Era una giornata tranquilla, il sole splendeva luminoso nel cielo di Marte. Il traffico, vetture e pedoni, non sembrava prestare alcuna attenzione a noi, o almeno, se la prestava, la prestava alla donna giovane e bella che mi accompagnava e non a me direttamente. Eppure non mi sentivo tranquillo.

Rimasi lì fermo in mezzo alla strada a pensare, toccandomi il mento con un dito, e Penny mi domandò stupita: — Che cosa c’è, Capo?

— Già… Ecco che cosa c’è!

— Sì?

— Ecco… io non sto comportandomi come il "Capo". Non è nel suo carattere andarsene a piedi come facciamo noi. Torniamo indietro, Penny.

Non stette a discutere, ma mi seguì docilmente fino all’automobile. Questa volta mi accomodai sul sedile posteriore, mi sedetti con aria dignitosa, e lasciai che fosse Penny a scarrozzarmi fino all’uscita 3.

Non era lo stesso cancello dal quale eravamo passati all’arrivo: credo che Dak l’avesse scelto perché era più per le merci che per i passeggeri. Penny non prestò attenzione ai divieti di sosta e portò la grossa Rolls fino alla sbarra che bloccava il passaggio. Un guardiano cercò di fermarci, ma Penny si limitò a informarlo freddamente: — È la vettura messa a disposizione dell’onorevole Bonforte. Vorrebbe essere tanto gentile da avvisare il Commissario che la mandi a riprendere qui?