Udii dalla porta un bussare rapido. — Chi è? — gridai.
— Capitano Broadbent.
— Avanti, Dak.
Entrò, si mise a sedere, e per alcuni momenti sembrò occupatissimo a pulirsi le unghie. Alla fine alzò il viso e disse:
— Cambierebbe idea se mettessi ai ferri quel manigoldo?
— Come? C’è un posto in cui mettere qualcuno ai ferri, sull’astronave?
— No. Ma si potrebbe anche prepararlo.
L’osservai attentamente, cercando di capire cosa gli stesse esattamente frullando per il cervello. — E lei metterebbe davvero Bill ai ferri, solo perché lo chiedo io?
Mi fissò, mi strizzò un occhio, e fece un sorriso. — No. Un uomo che si comportasse così non sarebbe un vero comandante. Sono ordini che non sarei disposto ad accettare neppure da lui. - Indicò con il capo la stanza di Bonforte.
— In questi casi, un uomo deve decidere da solo.
— Sono d’accordo anch’io.
— Ehm… mi hanno detto che lei ha preso or ora una decisione di questo tipo.
— Vero.
— Lo supponevo. Sa, vecchio marpione, da qualche tempo ho incominciato a nutrire un mucchio di rispetto per lei. Da principio pensavo che lei fosse solo una maschera vuota, una faccia, uno smidollato con dentro niente. Ma mi sbagliavo.
— Grazie.
— Per questo non voglio discutere la sua decisione. Mi dica però una cosa. Vale la pena, per me e per lei, d’esaminare ancora una volta tutti gli aspetti della situazione? Lei ci ha già pensato come doveva?
— Mi spiace, Dak, ma sono deciso. Non sono affari di mia competenza.
— Be’, forse lei ha ragione. Mi scusi. Allora, penso che non ci resti altro che sperare che lui si ristabilisca in tempo. — Si alzò. — A proposito — aggiunse — Penny desidererebbe farle visita un momento, se lei non ha intenzione di ritirarsi proprio ora.
Risi senza un briciolo d’allegria. — Solo "a proposito", eh? Mi pare che non sia la sequenza giusta. Adesso non toccherebbe al professor Capek cercare di far leva sulla mia simpatia?
— Ha preferito saltare il turno. Ha troppo da fare con l’onorevole Bonforte. Però le ha mandato un messaggio verbale.
— Eh?
— Dice che lei può andarsene pure all’inferno. L’ha ricamato con qualche fronzolo, ma il succo era quello.
— Davvero? Allora gli dica che gli terrò uno dei posti migliori, di quelli accanto al fuoco.
— Dunque, Penny può venire?
— Ma certo! Però le dica che perde il suo tempo. La risposta è sempre la stessa: "No".
E infatti dissi "sì". Diavolo, perché mai una richiesta deve sempre sembrare più sensata quando c’è un alone di "Passione tropicale" a sottolinearla? Non che Penny abbia usato metodi sleali: non versò neanche una lacrimuccia (né io la toccai neppure con un dito). Ma mi trovai a concederle dei punti, e alla fine non avevo più punti da concedere. Non c’è niente da fare: Penny appartiene a quel tipo di donna che vuole salvare il mondo a tutti i costi, e la sua sincerità è contagiosa.
Tutto il doposcuola che mi ero sciroppato nel viaggio verso Marte non era stato nulla in confronto al vero studio cui mi applicai nel viaggio per New Batavia. Ormai m’ero impadronito dei primi elementi del personaggio: ora era necessario completare i dettagli, preparandomi a essere Bonforte in quasi tutte le circostanze possibili. Mentre da un lato dovevo incontrare il re in udienza formale, dall’altro lato, una volta che fossimo a New Batavia, avrei quasi certamente incontrato un numero indeterminato di persone tra le centinaia o le migliaia possibili. Rog avrebbe cercato di manovrare le cose nel modo usato abitualmente da tutte le grandi personalità quando hanno da fare del lavoro e quel lavoro va fatto, cioè tenendomi lontano dalla gente. Tuttavia avrei dovuto incontrare lo stesso qualche persona: un personaggio pubblico è un personaggio pubblico, non c’è scampo.
Quella specie d’alta acrobazia che m’accingevo a fare m’era resa possibile solo grazie allo "schedario Farley" di Bonforte, probabilmente il migliore che sia mai stato compilato. Farley era un funzionario politico del Ventesimo secolo, credo un contemporaneo di Eisenhower I, e il metodo da lui inventato per trattare le relazioni personali degli uomini politici era una cosa altrettanto rivoluzionaria quanto, nell’arte militare, lo era l’invenzione tedesca dello stato maggiore. Eppure io non ne avevo mai sentito parlare prima che Penny mi mostrasse il "Farley" di Bonforte.
Non era altro che un semplice schedario, pieno di dati e di notizie sulle persone più disparate. Bisogna ricordare però che l’arte della politica "non è altro" che il saper trattare con le persone più disparate. Quello schedario conteneva tutto o quasi tutto ciò che riguardava le migliaia e migliaia d’individui incontrati da Bonforte nel corso della sua lunga carriera politica. Ciascuna scheda era costituita dalle informazioni di cui disponeva su una determinata persona, desunte dai contatti personali di Bonforte con quella stessa persona. C’era tutto, per insignificante che fosse… anzi erano appunto le cose insignificanti le prime voci di ciascuna scheda. Nomi e soprannomi delle mogli, dei figli, degli animali domestici, se ne avevano; i passatempi, i gusti in fatto di cibi e di bevande, i pregiudizi, le stranezze. Nella scheda erano poi trascritti, con la data e il luogo, alcuni commenti che riguardavano tutte le occasioni nelle quali Bonforte aveva parlato con quella particolare persona.
Quando si poteva, era anche compresa una foto. Talvolta c’erano dei dati "accessori", vale a dire informazioni ottenute da Bonforte a seguito di ricerche, e non apprese direttamente da lui. Dipendeva dall’importanza politica della persona. In alcuni casi i dati accessori costituivano una completa biografia di qualche pagina.
Tanto Bonforte che Penny usavano portar sempre su di sé un registratore di tipo mignon, che veniva alimentato dal calore stesso del corpo. Quando Bonforte era solo, aveva l’abitudine di dettare nel registratore ogni volta che ne avesse l’occasione: nelle sale d’aspetto, camminando eccetera. Quando Penny lo accompagnava, prendeva la registrazione sul suo apparecchio, che aveva l’aspetto d’un orologio da polso. Penny non aveva il tempo di trascrivere le registrazioni e di occuparsi dei microfilm; due dattilografe di Jimmie Washington se ne occupavano quasi a tempo pieno.
Per farmi vedere il Farley di Bonforte, Penny me ne mostrò tutto l’archivio (ed era una cosa piuttosto ingombrante, anche a trenta e più pagine per bobina) e mi disse che quelle erano le notizie personali sui conoscenti di Bonforte. Io mi urlamentai (vale a dire che emisi insieme un urlo e un lamento, entrambi profondamente sinceri): — Per l’amor del Cielo, ragazza mia! Te l’avevo detto che era un lavoro impossibile! Come si fa a imparare a memoria tutto?
— No, non ce n’è bisogno, naturalmente.
— Ma se mi hai appena detto che sono le notizie che ricorda dei suoi amici e conoscenti…
— No, non proprio. Ho detto che quelle registrazioni contengono le notizie che desidererebbe ricordare. Ma, visto che non può, perché sarebbe impossibile, lui aggira l’ostacolo in questo modo. Non se ne preoccupi. Non avrà da imparare a memoria niente. Voglio solo farle vedere che tipo di notizie sono disponibili. È compito mio assicurarmi che lui abbia sempre un minuto o due per studiare la giusta scheda Farley, prima che una persona entri a fargli visita. Se ne sorgesse il bisogno, potrei dare una mano anche a lei con lo stesso tipo di servizio.
Esaminai la tipica scheda proiettata sul visore della scrivania. Un certo signor Saunders di Pretoria, credo. Aveva un bulldog chiamato "Snuffles Bullyboy", varia figliolanza priva di alcun interesse, e gli piaceva bere whisky e soda con una punta di limone. — Penny, devo credere che l’onorevole Bonforte fa finta di ricordare dei particolari così insignificanti? Mi sembra una cosa esageratamente affettata…