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— Eh? Credo di sì. Sì.

— Naturalmente. Penso che ogni nido abbia un ricevitore stereovisivo. Ricordo di averne notati molti nel Nido di Kkkah. I marziani seguono le notizie dell’Impero con la stessa attenzione con cui le seguiamo noi. Non crede?

— Sì. Almeno gli anziani.

— Se porterò la verga, dunque, lo sapranno; e lo sapranno anche se non la porterò. Ai marziani importa moltissimo questo particolare; è una cosa strettamente legata al loro concetto di "correttezza". Nessun marziano adulto dimentica mai di portare la verga quando esce dal nido, e la porta anche nel nido, in occasione delle cerimonie. L’imperatore ha già avuto occasione di ricevere dei marziani nel passato, e tutti avevano sempre la loro verga, no? Sono pronto a scommetterci la testa.

— Sì, ma lei…

— Lei dimentica che io sono un marziano.

Rog mi guardò sbigottito.

— Io non sono soltanto "John Joseph Bonforte" — continuai. — Io sono anche Kkkahjjjerrr del Nido di Kkkah. Se non porterò con me la verga commetterò una gravissima scorrettezza… e sinceramente non so cosa potrà succedere quando lo si verrà a sapere su Marte; non conosco abbastanza gli usi e i costumi marziani per poter dire quale sarà la loro reazione, tuttavia sarà certo spiacevole. Provi ora a guardare le cose dall’altro punto di vista. Quando io entrerò nella sala del trono portando la mia verga, io sarò un cittadino marziano che si reca da Sua Maestà per essere nominato Primo Ministro. Quale potrà essere l’effetto di tutto ciò sui nidi?

— Ammetto di non averci pensato fino in fondo — disse lentamente Rog.

— E nemmeno io, se non mi fosse toccato decidere se portare o no la verga. Ma lei non crede che Bonforte ci avesse già pensato, ancor prima di mettere in moto tutto il meccanismo culminato poi con l’adozione? Rog, abbiamo afferrato la tigre per la coda; adesso l’unica cosa da fare è salirle in groppa e cavalcarla. Non possiamo mollare la presa.

A questo punto arrivò Dak, il quale si dichiarò subito del mio parere, e parve anzi sorpreso che Rog non fosse stato d’accordo.

— Certo — esclamò, tutto soddisfatto. — Creeremo un nuovo precedente, ma del resto abbiamo intenzione di crearne molti altri, prima che la cosa vada in porto. — Ma quando vide il modo disinvolto con cui maneggiavo la verga, lanciò un urlo. — Perdio! Ma cosa fa? Vuole uccidere qualcuno? O solo scavare un buco nella parete?

— Sto facendo attenzione a non premere il grilletto.

— Alla faccia, che incosciente! Non ha nemmeno inserito la sicura. — Mi tolse con circospezione l’arma di mano e m’insegnò: — Bisogna girare questo anello… e spingere il grilletto dentro questa piccola rientranza. Ecco… adesso è una comune canna da passeggio. Uff!

— Oh! Mi spiace.

Mi accompagnarono fino alla sala d’aspetto del Palazzo Imperiale, dove venne a rilevarmi lo scudiero di corte di re Guglielmo, il colonnello Pateel, un indù dall’espressione tranquilla e dai modi compitissimi, vestito con la rutilante divisa delle Forze Spaziali dell’Impero. L’inchino che mi fece doveva essere stato calcolato al millesimo: sembrava indicare che, anche se stavo per essere nominato Primo Ministro, tuttavia non lo ero ancora e che, anche se ero più anziano di lui, ero pur sempre un borghese… da tutto questo occorreva poi sottrarre almeno cinque o sei punti perché lui portava sulla spalla destra l’aquila imperiale.

Guardò la mia arma e disse in tono blando: — Ah, una verga marziana, vero? Interessante. Immagino che vorrà lasciarla qui, signore. Sarà perfettamente al sicuro.

— No — dissi. — La porto con me.

— Signore? — Le sue sopracciglia s’inarcarono di scatto, ed egli rimase in attesa che correggessi quell’errore lampante.

Feci allora ricorso alle frasi fatte che Bonforte preferiva, e ne scelsi una che lui usava per rimproverare le persone troppo invadenti.

— Figliolo — dissi — lei badi a fare la sua calzetta, che io bado a fare la mia.

Dal suo volto scomparve ogni traccia d’espressione. — Benissimo, signore. Vuole seguirmi da questa parte?

Ci fermammo sulla soglia della sala del trono. Lontano, in fondo a quell’enorme ambiente, il trono, eretto su un palco, era ancora vuoto. Su ambo i lati, lungo le pareti dell’immensa caverna, erano schierati in attesa i membri della nobiltà e i dignitari di Corte. Suppongo che Pateel avesse fatto un cenno speciale, perché si levarono subito le note dell’Inno Imperiale e tutti c’irrigidimmo. Pateel sembrava un robot; io assunsi un atteggiamento un po’ stanco, da uomo anziano e oberato di lavoro che si presta al gioco solo perché non può fare altrimenti; quanto ai nobili e ai dignitari, parevano manichini in vetrina. Spero che non rinunceremo mai del tutto allo sfarzo di una Corte; tutti quei figuranti per parti nobili e quelle comparse con spada fanno un gran bel vedere.

Gli ultimi accordi si perdevano nell’aria quand’Egli entrò dal fondo della sala e salì sul trono… Egli, cioè Guglielmo, Principe di Orange, Duca di Nassau, Granduca del Lussemburgo, Cavaliere Supremo del Sacro Romano Impero, Ammiraglio Generale delle Forze Imperiali, Consigliere dei Nidi Marziani, Protettore dei Poveri e, per Grazia di Dio, Re dei Paesi Bassi e Imperatore dei Pianeti e degli Spazi Intermedi.

Non riuscivo a vederlo in viso, ma tutti quei simboli che si accentravano sulla sua persona produssero in me un senso di riverenza, di soggezione e anche di ammirazione. La mia ostilità per la monarchia sembrava svanita.

L’ultima nota dell’inno si spense mentre re Guglielmo si metteva a sedere. Egli rispose con un grazioso cenno di saluto, e un’onda di leggero rilassamento increspò le file di figurini dei cortigiani immoti. Pateel si ritirò e io, con la mia brava verga sotto il braccio, iniziai la lunga marcia fino al trono, zoppicando leggermente nonostante la forza di gravità ridotta. Mi sentivo stranamente ansioso ed eccitato, come quando avevo fatto il mio ingresso nel Nido di Kkkah, solo che adesso non avevo paura. Ero solo un po’ eccitato e ansioso. Tutto il pot-pourri musicale dell’Impero mi accompagnò nel cammino: l’orchestra passava da "Kong Christian" alla "Marsigliese", a "Sempiterne stelle e strisce" e a tutto il resto. Giunto alla prima linea segnata sul pavimento, a una decina di passi dal trono, mi fermai per inchinarmi; ancora due passi, poi un secondo inchino; altri due passi, e un terzo inchino, più profondo, proprio prima dei gradini. Non m’inginocchiai; i nobili hanno l’obbligo d’inginocchiarsi, ma la gente comune partecipa alla sovranità con il sovrano. Spesso questo particolare viene messo in scena nel modo sbagliato, sia in teatro che in stereo, e Rog si era assicurato che conoscessi bene il modo giusto di comportarmi.

— Ave imperatori - Se fossi stato olandese avrei detto anche Ave rex, ma ero americano. Ci scambiammo meccanicamente qualche frase in latino scolastico, lui per chiedermi cosa volevo, io per ricordargli che era stato lui a convocarmi eccetera. Dopo di che, prese a parlare in angloamericano; lo pronunciava con un leggero accento.

— Lei servì onorevolmente nostro padre. Oggi abbiamo pensato che potrebbe servire anche noi… cosa ha da dire?

— Il desiderio del mio sovrano è legge per me, Maestà.

— Si avvicini.

Forse esagerai un tantino in verismo, ma i gradini del trono erano alti, e la gamba mi stava effettivamente facendo male (era un fenomeno psicosomatico, ma in fin dei conti i dolori psicosomatici sono dolori come tutti gli altri). Stavo per inciampare, ma Guglielmo balzò giù dal trono come un lampo per sorreggermi il braccio. Sentii un mormorio soffocato uscire dalle bocche dei presenti. Il re mi sorrise e mi sussurrò: — Non si affanni, caro amico. Vedremo di sbrigarci presto.

Mi accompagnò fino allo sgabello posto davanti al trono e mi fece sedere, goffamente, un attimo prima che egli stesso fosse ritornato a sedersi. Poi tese la mano per farsi dare il rotolo di pergamena, e io glielo diedi. Egli lo aprì e fece finta di studiare attentamente quella pagina bianca.

Ora l’orchestra suonava musica da camera, e tutte le personalità della Corte fingevano esageratamente di divertirsi. Le dame mandavano risatine, i gentiluomini mormoravano frasi galanti, i ventagli s’agitavano senza interruzione. Nessuno si allontanava dal proprio posto, ma ciascuno era in continuo movimento. Paggetti simili a cherubini michelangioleschi giravano offrendo vassoi di dolci. Uno venne a inginocchiarsi davanti a Guglielmo, ed egli si servì senza staccare gli occhi da quella lista inesistente di ministri. Il paggetto poi presentò il vassoio anche a me, e io vi presi qualcosa senza sapere se il mio gesto fosse corretto o no. Era uno di quei meravigliosi, impareggiabili cioccolatini che si fanno solo in Olanda.