Dopo un po’ non insistette più con quei suoi trenini infantili e ritornammo nel suo ufficio. Pareva che stesse per congedarmi. E infatti mi disse: — Penso che sia ora che la lasci tornare alle sue occupazioni. Il viaggio è stato faticoso?
— No, non troppo. L’ho passato lavorando.
— Già, certo. A proposito, chi è lei?
C’è la mano del poliziotto che vi tocca sulla spalla; c’è lo shock che provate quando, al buio, credete di salire o di scendere lo scalino che non c’è; c’è la caduta dal letto, in pieno sonno; e c’è il marito della vostra amante che torna a casa inaspettatamente. Ebbene, avrei preferito tutte queste cose messe insieme invece di quella semplice domanda. In quel momento credo d’essere invecchiato, internamente, tanto da pareggiare l’età mostrata dal mio trucco; forse anche più.
— Sire?
— Andiamo — esclamò con impazienza. — La mia professione comporta qualche privilegio, stia tranquillo. Mi dica la verità. Sarà almeno un’ora che mi sono accorto che lei non è Joseph Bonforte… anche se, a dire il vero, lei riuscirebbe a ingannare sua madre. Ha perfino tutte le sue affettazioni. Insomma, chi è lei?
— Mi chiamo Lawrence Smith, Sua Maestà — dissi con un fil di voce.
— Coraggio, amico. Se avessi voluto, avrei fatto chiamare le guardie già da un pezzo. L’hanno mandata qui per assassinarmi?
— No, Sire!… Sono un fedele servitore di Sua Maestà.
— Che strano modo di dimostrarlo! Be’, si versi un altro cicchetto, si sieda, e mi racconti.
Gli raccontai, senza omettere niente. In realtà mi ci volle più d’un cicchetto, ma alla fine mi sentivo meglio. Quando gli parlai del rapimento s’infuriò, e quando poi gli dissi quel che avevano fatto alla mente di Bonforte il suo volto s’incupì in una rabbia omerica.
Alla fine mi disse, con calma. — Dunque, tutto sommato, è solo questione di giorni perché guarisca, vero?
— Così mi assicura il professor Capek.
— Non gli lasci riprendere il lavoro finché non si sia ristabilito completamente. È un uomo di grande valore… lo sa anche lei, vero? Vale sei volte me e lei messi insieme. Quindi continui a fargli da controfigura e lasci che guarisca. L’Impero ha bisogno di lui.
— Sì, Sire.
— E la pianti con quel "Sire"! Dato che fa finta di essere lui, mi chiami "Guglielmo", come fa Bonforte. Lo sa come ho fatto a mangiare la foglia?
— No, Sì… No, Guglielmo.
— Sono vent’anni che mi chiama Guglielmo. Mi sembrava decisamente strano che d’improvviso smettesse di farlo in privato solo perché mi faceva visita per affari di Stato. Ma non avevo ancora sospetti. Tuttavia, per quanto la sua recitazione fosse perfetta, la cosa mi ha portato a pensare. Quando poi siamo andati a vedere i trenini, ho capito.
— Mi scusi, ma come?
— Lei era troppo educato, santo Iddio! Ho costretto molte volte Bonforte a vedere i treni, in passato, e lui mi ha sempre reso la pariglia, invariabilmente, dicendomi con la massima sgarbatezza possibile che erano giocattoli da bambini, che avrei dovuto vergognarmi di sciupare il mio tempo così. Era una piccola scenetta che ripetevamo sempre, e ce la godevamo un mondo tutt’e due.
— Oh, non lo sapevo.
— E come poteva saperlo?
Io invece pensavo che avrei dovuto saperlo. Quel maledetto Farley avrebbe dovuto illuminarmi… Solo più tardi mi resi conto che lo schedario non ne aveva colpa, proprio per il concetto su cui si basava; il suo scopo era permettere a un uomo famoso di ricordare particolari che riguardavano le persone meno famose. E l’imperatore non lo era affatto… meno famoso, voglio dire.
Era ovvio che Bonforte non avesse bisogno di appunti per ricordare i particolari personali di Guglielmo! Né avrebbe giudicato corretto scrivere appunti sulla vita privata del sovrano in uno schedario che andava in mano ai suoi impiegati.
Mi ero lasciato sfuggire una cosa ovvia… e non so proprio come avrei potuto evitarlo, anche se avessi pensato che lo schedario poteva essere incompleto.
Intanto l’imperatore continuava a parlare. — Lei ha fatto un magnifico lavoro… E dopo aver messo a repentaglio la vita in un nido marziano, non mi stupisce affatto che se la sia sentita di venire qui a imbrogliare anche me. Mi dica un po’, l’ho mai vista in stereo, o da qualche altra parte?
Gli avevo dato il mio nome vero, naturalmente, quando me l’aveva chiesto prima; ora, timidamente, gli dissi il mio nome d’arte. Lui mi guardò, allargò le braccia, e si mise a ridere. La cosa mi ferì un poco. — Ehm, ha già sentito parlare di me?
— Se ho già sentito parlare di lei? Sono uno dei suoi ammiratori più accesi. — Si avvicinò e mi osservò in volto con attenzione. — Eppure lei assomiglia sempre a Joseph Bonforte. Non riesco a credere che lei sia "Il Grande Lorenzo".
— Eppure lo sono.
— Oh, ci credo, ci credo. Si ricorda di quella scena in cui lei fa il vagabondo? Prima tenta inutilmente di mungere una vacca, poi finisce a mangiare nel piatto del micio. Ma anche il gatto la scaccia.
Feci un cenno del capo.
— Ho quasi consumato il nastro a furia di guardarlo. Rido e piango contemporaneamente.
— Lo scopo è quello. — Esitai un attimo, ma poi ammisi di avere copiato il mio personaggio campagnolo "Willie lo Stanco" da un grandissimo artista di un secolo precedente. — Ma preferisco le parti drammatiche — aggiunsi.
— Come questa?
— Be’… non esattamente. Per una parte come questa, una volta è sufficiente. Non mi piacerebbe doverla tenere in cartellone per troppo tempo.
— Ne sono convinto anch’io. Be’, dica a Roger Clifton… No, non dica niente a Clifton. Lorenzo, non mi sembra che ci sia nulla da guadagnare riferendo a chicchessia quanto ci siamo detti nell’ultima parte del colloquio. Se lei lo dicesse a Clifton, anche aggiungendo che io stesso ho detto di non preoccuparsi, lui si mangerebbe il fegato comunque. E ha il suo lavoro da fare. Quindi, d’accordo: acqua in bocca, eh?
— Come il mio imperatore desidera.
— Lasci perdere, per favore. Staremo zitti perché è meglio star zitti. Mi spiace di non poter andare a trovare il mio caro amico Joseph al capezzale. Non che servirebbe a nulla, anche se una volta si attribuivano poteri miracolosi al Tocco Regale. Quindi, zitti, e fingiamo che io abbia abboccato.
— Sì… Guglielmo.
— Adesso sarà meglio che lei se ne vada. L’ho trattenuta fin troppo.
— Come lei vuole.
— Faccio venire Pateel perché l’accompagni… o crede di riuscire a trovare la strada da solo? Ma, aspetti un attimo… — Si mise a frugare tra le carte dello scrittoio, borbottando tra sé: — Quella ragazza ha di nuovo spostato tutto per mettere ordine. Perché mi rubano sempre le cose…? No, eccolo. — Mi porse un libriccino. — Siccome è molto improbabile che ci rivediamo ancora… le spiacerebbe darmi il suo autografo, prima d’andarsene?
9
Quando tornai da Rog e Bill, nel salotto belvedere di Bonforte, loro stavano mangiandosi le unghie dal nervosismo. Non appena m’affacciai all’uscio, Corpsman balzò in piedi e mi si precipitò incontro. — Dove diavolo s’era cacciato? — protestò.
— Ero dall’imperatore — risposi freddamente.
— È rimasto assente cinque o sei volte più del necessario.
Non mi presi la briga di rispondere. Da quando c’era stato tra noi quel famoso battibecco sul mio discorso, io e Corpsman c’eravamo limitati a sopportarci, continuando a collaborare nei limiti dell’indispensabile. Ma il nostro era un matrimonio di convenienza, non d’amore. Lavoravamo insieme, ma in verità l’ascia di guerra era tutt’altro che seppellita, a meno che non intendesse seppellirla lui, nella mia schiena… Non avevo fatto sforzi particolari per guadagnarmi la sua amicizia, e sinceramente non vedevo il motivo per cui avrei dovuto farne. Secondo il mio parere, i genitori di un individuo così spregevole non potevano che essersi incontrati di sfuggita a un ballo mascherato.