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— Va bene — disse con sarcasmo Corpsman. — Dirò "polmonite" invece di "raffreddore".

Quando Bill se ne fu andato, Rog si avvicinò per dirmi: — Non se la prenda, Capo. Nel nostro lavoro ci sono giornate buone e giornate in cui tutto sembra nero.

— No, Rog. Ho davvero intenzione di marcare visita. Anzi lo annunci pure alla stereo, stasera.

— Oh.

— Conto di mettermi a letto e di restarci. Non mi pare che ci sia nulla di strano se Bonforte avrà il "raffreddore" finché non sarà pronto per ritornare sulla scena. Tutte le volte che compaio in pubblico aumenta la possibilità che qualcuno scopra il trucco… Inoltre, tutte le volte che compaio in pubblico, quel gelosone di Corpsman trova sempre qualcosa da ridire. Un attore non può dare il meglio di se stesso se c’è sempre davanti a lui qualcuno che lo disprezza, in continuazione. Quindi, basta: cala il sipario.

— Non se la prenda, Capo. D’ora in poi farò in modo che Corpsman non le venga più tra i piedi. Qui non è più come sull’astronave. C’è un mucchio di posto per tutti.

— No, Rog, ormai ho deciso. Oh, non abbia timore. Non vi abbandonerò di punto in bianco. Rimarrò con voi finché l’onorevole Bonforte non sarà di nuovo in grado di riprendere i contatti con la gente, casomai dovesse sorgere qualche situazione d’emergenza — ricordavo con un certo turbamento come l’imperatore m’avesse detto di continuare a recitare la parte e come fosse sicuro che l’avrei fatto — ma è davvero preferibile che mi teniate nascosto. Finora tutto è andato per il meglio, no? Oh, certo, loro lo sanno, qualcuno lo sa, che non poteva essere Bonforte la persona che ha preso parte alla cerimonia dell’adozione. Comunque, coloro che sanno non oseranno certo parlare dell’accaduto, e anche se lo facessero non potrebbero dimostrare nulla. Quelle stesse persone possono sospettare che oggi, all’udienza reale, ci fosse un sosia di Bonforte, ma non possono averne la sicurezza: c’è sempre la possibilità che Bonforte sia guarito abbastanza in fretta da partecipare all’udienza. Dico bene?

Clifton assunse un’espressione strana, di leggero imbarazzo, e mormorò: — Temo che invece siano ben sicuri che si trattava di un sosia. Capo.

— Eh?

— Le abbiamo un po’ indorato la pillola perché non s’innervosisse troppo. Fin dalla prima visita, il professor Capek ha detto che occorreva un miracolo perché Bonforte ritornasse abbastanza in forma da poter partecipare oggi all’udienza. E come lo sapeva il professore, così lo potevano sapere benissimo anche coloro che gli hanno somministrato la droga.

Mi accigliai. — Allora mi prendeva in giro, prima, dicendomi che stava meglio? Voglio sapere la verità, Rog. In che condizioni è, adesso?

— Prima dicevo la verità, Capo. Per questo le ho suggerito d’andare a fargli visita… anche se poi sono stato felicissimo che lei si sia rifiutato di farlo. Però — aggiunse — forse la miglior cosa sarebbe andare a parlargli.

— Uhm… No. — I motivi per cui non desideravo vederlo mi parevano ancora validi. Se avessi dovuto comparire nuovamente in pubblico nei suoi panni, non volevo correre il rischio d’essere tradito dal mio subcosciente. L’interpretazione esigeva d’imitare una persona che stesse bene. — Rog, alla luce di quanto lei mi ha detto or ora, tutto ciò che le dicevo risulta pienamente valido, ancor più di prima. Se i nostri avversali hanno la sicurezza che oggi s’è presentata una controfigura al posto suo, non possiamo rischiare di farmi comparire ancora una volta in pubblico. Oggi li abbiamo colti di contropiede, o forse non c’era assolutamente il modo di smascherarmi, date le circostanze; ma la prossima volta non si lasceranno cogliere alla sprovvista. Prepareranno qualche trabocchetto, qualche prova che io non riuscirei mai a superare… e allora bum! il palloncino scoppierà e il bel gioco sarà finito. — Ci pensai un attimo. — È meglio che la mia "malattia" duri per tutto il tempo necessario. Bill ha ragione: meglio dire "polmonite".

La forza della suggestione è tale che la mattina seguente mi destai col naso chiuso e la gola dolorante. Il professor Capek mi sottopose a una cura energica, e per l’ora di colazione mi sentivo ritornato quasi normale. Ciò nondimeno, egli emise un bollettino medico per comunicare che "l’onorevole Bonforte è stato colpito da un’infezione virale". Poiché le città a tenuta ermetica e ad aria condizionata della Luna sono appunto tali, nessuno ha il desiderio d’esporsi al contagio di una malattia i cui germi sono trasmessi per via aerea. Non ci fu alcun tentativo di superare i miei chaperon e di venire a trovare l’illustre infermo. Per quattro giorni lessi e curiosai nella biblioteca di Bonforte, attingendo a piene mani alla raccolta dei suoi scritti e ai suoi libri… Scoprii che tanto la politica quanto l’economia possono risultare molto affascinanti. Quegli argomenti, fino a quel momento, non mi erano mai sembrati molto concreti. L’imperatore mi mandò fiori delle serre reali… chissà se erano proprio per me?

Non importa. Mi concessi il lusso di oziare, crogiolandomi nel piacere d’essere nuovamente me stesso, "Il Grande Lorenzo" o anche il prosaico Lawrence Smith, non fa differenza. Scoprii che era diventato automatico immedesimarmi nel personaggio di Bonforte non appena entrava qualcuno, ma non lo potevo controllare. Tuttavia non ce ne fu mai davvero bisogno; vidi solo Penny, Capek e, in un’occasione, Dak.

Ma anche a mangiar loto, dopo un po’ ci si stanca. Al quarto giorno non ne potevo più di quella stanza, che mi riusciva più odiosa di qualsiasi anticamera d’impresario teatrale che avessi mai sperimentato in vita mia. Mi sentivo solo, nessuno si occupava di me; le visite di Capek erano strettamente professionali, e quelle di Penny erano brevi e rare. Per di più, aveva smesso di chiamarmi "onorevole Bonforte".

Quando arrivò Dak gli mostrai tutto il mio entusiasmo. — Dak, che piacere! Cosa c’è di nuovo?

— Niente d’importante. Con una mano cerco di mettere in ordine la Tom Paine, mentre con l’altra aiuto un po’ Rog a rimediare a qualche faccenda politica imprevista. Per mettere a punto questa campagna elettorale si farà venire l’ulcera: ci scommetterei otto contro tre. — Si mise a sedere. — Uff, la politica!

— Ehm… già. Ma come ha fatto, lei, a entrare in politica? Così, dal di fuori, pensavo che i voyageur si tenessero lontani dalla politica almeno quanto gli attori, in particolare lei.

— È vero e non è vero. Per lo più se ne infischiano di chi sta al potere, purché possano continuare a portare le loro carrette in giro per il cielo. Ma per poterlo fare occorre merce da trasportare, e la merce vuol dire commercio e il commercio, per essere redditizio, deve essere completamente aperto, cioè ogni astronave deve poter andare dove preferisce, senza l’impaccio di quelle sciocchezze delle dogane e delle zone interdette. Libertà. Ed ecco dove si casca: nella politica. Quanto al mio caso, in origine mi ero mosso per sostenere il permesso di "viaggio continuo", in modo che le merci che seguivano la rotta dei tre pianeti non dovessero pagare due volte i dazi doganali. Non occorre dirle chi avesse proposto l’emendamento: Bonforte. Una cosa tira l’altra, ed eccomi qua, comandante del suo yacht già da sei anni, e rappresentante alla Grande Assemblea dei miei colleghi di corporazione, a partire dalle ultime elezioni generali. — Trasse un gran sospirone. — Se vuol sapere la verità, non so bene neppure io come siano andate effettivamente le cose.

— Allora immagino che sia ansioso di rinunciare alla carica. Non intenderà mica ripresentarsi alle elezioni?

Mi fissò sbalordito. — Eh?… Amico, finché non si entra nella politica non si sa cosa significhi essere vivi.

— Ma se ha appena finito di dirmi…

— Sì, sì. So benissimo cosa le stavo dicendo. È un mestiere pericoloso, spesso anche sporco, composto solo di lavoro pesante e d’un mucchio di dettagli noiosi. Ma è l’unico passatempo adatto per le persone adulte. Tutti gli altri passatempi sono per bambini. Tutti. — Tacque; dopo un momento si alzò. — Devo correre.