— Oh, no, resti ancora un po’ a tenermi compagnia.
— Non posso assolutamente. Domani si riunisce la Grande Assemblea e devo dare una mano a Rog. Anzi, non sarei neanche dovuto venire.
— Ah — feci — davvero? Si riunisce l’Assemblea? Non lo sapevo.
Sapevo che la Grande Assemblea, vale a dire quella uscente, doveva riunirsi ancora una volta prima dello scioglimento per prendere atto della nomina del nuovo governo, ma non ci avevo pensato. Era una cosa d’ordinaria amministrazione, superficiale e meccanica come sottoporre l’elenco dei ministri alla graziosa approvazione dell’imperatore. — E lui potrà partecipare alla riunione? — chiesi.
— No. Ma non se ne preoccupi. Penserà Rog a scusarsi per la sua… cioè la sua… assenza di fronte all’Assemblea, e chiederà d’adottare il procedimento per procura, previa approvazione. Poi leggerà il discorso del Primo Ministro Designato, discorso che Bill sta preparando ora. Chiederà a nome proprio che il Governo venga votato. Approvazione. Nessun dibattito. Altra approvazione. La seduta è aggiornata sine die… e tutti si precipitano a casa a prepararsi per la campagna elettorale, incominciando a promettere agli elettori due donne ciascuno e cento crediti in tasca ogni lunedì. Normale amministrazione. — Aggiunse: — Ah, dimenticavo. Ci sarà anche qualche membro del Partito dell’umanità che proporrà una mozione di auguri di pronta guarigione e l’invio d’un mazzo di fiori, e la mozione sarà approvata in un alone di sottile ipocrisia. I fiori, preferirebbero mandarli al funerale di Bonforte. — Aggrottò la fronte.
— Sarà davvero tutto così semplice? Cosa succederebbe se non accettassero Rog come rappresentante per procura del Primo Ministro? Pensavo che la Grande Assemblea non accettasse sostituti.
— E di solito non li accetta, quando adotta la procedura ordinaria. O ci si accorda con un deputato dell’opposizione per rimanere assenti in due, oppure ci si fa vivi e si vota. Ma la riunione di domani è una di quelle fatte apposta per far girare a vuoto gli ingranaggi del Parlamento. Se non permetteranno a Bonforte di venir rappresentato per procura, allora dovranno rimanere lì ad aspettare che lui si ristabilisca, prima di poter aggiornare i lavori sine die e di potersi dedicare alla loro ben più seria occupazione di cercare d’ipnotizzare gli elettori. Fino ad oggi, un quorum rappresentativo si è riunito quotidianamente, aggiornando ogni volta la seduta, fin dal giorno delle dimissioni di Quiroga. Questa Assemblea è più morta dello spettro di Cesare, ma per poterla affossare occorre procedere costituzionalmente.
— Sì… ma supponiamo che qualche idiota s’impunti e faccia delle obiezioni?
— Non s’impunterà nessuno, stia tranquillo. Sì, se s’impuntasse potrebbe provocare una crisi costituzionale, ma nessuno lo farà.
Restammo in silenzio per qualche istante. Dak non sembrava più ansioso d’andarsene.
— Dak — dissi — pensa che le cose andrebbero più lisce se mi facessi vedere e se pronunciassi io il discorso?
— Come? Credevo che la cosa fosse già stata discussa. È stato lei stesso a dire che è troppo pericoloso comparire ancora in pubblico, salvo qualche emergenza tra la vita e la morte. Del resto, non le do torto. C’è il vecchio detto della gatta e del lardo…
— Sì, ma questa volta, mi pare, si tratta solo d’una sfilata in passerella, no? Battute fisse come quelle d’un copione? O c’è la possibilità di qualche colpo di scena? Che abbiano in serbo qualche sorpresa che riuscirebbe a mettermi nell’imbarazzo?
— Be’, no. Di solito, in queste circostanze, dopo il discorso si usa tenere una conferenza stampa, ma si potrebbe evitarla con la scusa della sua recente malattia. Potremmo scivolare di soppiatto per il tunnel di sicurezza, e così lei potrebbe evitare i giornalisti. — Poi aggiunse, con un sorriso storto: — Naturalmente c’è sempre il pericolo che qualche malintenzionato riesca a intrufolarsi con la pistola nella galleria dei visitatori… l’onorevole Bonforte la chiamava "il tiro al bersaglio", dopo essere stato ferito da un colpo sparato da lì.
La gamba mi diede una fitta. — Ha intenzione di spaventarmi per non farmi andare?
— No.
— Be’, allora ha scelto uno strano modo per farmi coraggio. Dak, me lo dica sinceramente: lei desidera che io parli domani all’Assemblea, oppure no?
— Certo che lo desidero! Perché diavolo crede che sia venuto a trovarla qui, con tutto il da fare che ho? Solo per fare due chiacchiere?
Il Presidente pro tempore picchiò il martelletto. Il Cancelliere elevò a Dio un’evocazione in cui s’evitava accuratamente ogni differenza tra una religione e l’altra, e tutti fecero silenzio. I seggi erano occupati solo per metà, ma la galleria era stipata di turisti.
Gli altoparlanti ripeterono amplificati i colpi picchiati alla porta come voleva la tradizione; il Cerimoniere indicò la porta con la mazza. Per tre volte l’imperatore ordinò d’essere ammesso, e per tre volte gli fu detto di no. Poi implorò che gli venisse concesso quel privilegio, e l’Assemblea glielo concesse per acclamazione. Restammo tutti sull’attenti mentre Guglielmo entrava e prendeva posto al suo seggio, dietro al banco del Presidente. Era in uniforme d’Ammiraglio Supremo e non aveva scorta, com’era prescritto, perché la sua scorta era costituita dal Presidente e dal Cerimoniere.
Io m’infilai la verga sotto il braccio, mi alzai dal mio posto nel primo banco e, rivolgendomi al Presidente come se non fosse presente il sovrano, presi la parola. Il discorso che pronunciai non fu quello che Corpsman aveva scritto: quello se l’era ingoiato l’oubliette non appena gli ebbi dato un’occhiata. Bill l’aveva fatto diventare una pura e semplice propaganda elettorale e non era né il momento né il luogo per pronunciare un discorso di quel tipo.
Il mio fu breve, obiettivo, rubacchiato direttamente dagli scritti scelti di Bonforte: la parafrasi d’un discorso da lui tenuto quando aveva formato un precedente Governo provvisorio. Affermavo la mia devozione al benessere generale e alla ricchezza collettiva, esortavo tutti ad amarsi reciprocamente, proprio come noi bravi democratici amavamo il sovrano e lui a sua volta ci amava. Era una specie di lirica a versi sciolti, lunga tre o quattro pagine, e se mi distaccai un poco dal precedente discorso di Bonforte fu solo per ripetere le sue idee con parole mie.
Dovettero imporre il silenzio ai visitatori.
Rog si alzò per proporre che i nomi da me citati come facenti parte del Governo venissero confermati. Ci fu l’approvazione, nessuna obiezione, e il Cancelliere proclamò l’unanimità. Mentre avanzavo verso il banco del Presidente, accompagnato da un membro del mio partito e da uno dell’opposizione, potevo scorgere gli appartenenti alla Grande Assemblea mentre davano un’occhiata clandestina all’orologio per vedere se ce l’avrebbero ancora fatta a prendere il traghetto di mezzogiorno.
Poi giurai fedeltà al sovrano, entro i limiti costituzionali e sotto di essi, di difendere e di mantenere i diritti e i privilegi della Grande Assemblea, di proteggere la libertà dei cittadini dell’Impero, dovunque essi fossero e, tra una cosa e l’altra, anche d’eseguire il mio compito di Primo Ministro di Sua Maestà. Una volta il Cancelliere si sbagliò nel formulare le domande e io lo corressi.
Avevo l’impressione di prendermela con calma, come se si fosse trattato del pistolotto iniziale prima d’una rappresentazione… e mi accorsi d’avere le lacrime agli occhi, tanto da non riuscire quasi più a vedere. Quando ebbi terminato, Guglielmo mi disse, senza nessun tono particolare: — È stata una scena memorabile, Joseph.
Non seppi mai se stesse parlando a me o al suo vecchio amico, né la cosa m’importò. Non mi asciugai gli occhi; lasciai che le lacrime mi scivolassero giù per le guance mentre mi voltavo verso l’Assemblea. Attesi che il re fosse uscito, poi chiesi un aggiornamento della seduta.