Rimasero per un lungo instante in silenzio. Infine Dak trasse un sospiro e disse: — Digli anche il resto, Rog, altrimenti glielo dico io.
Rimasi in attesa.
Clifton si tolse il sigaro di bocca e disse: — Capo, l’onorevole Bonforte ha avuto un collasso, quattro giorni fa, e non è in condizione d’essere disturbato.
M’irrigidii, e presi mentalmente a recitare "Essere o non essere, questo è il problema", sino alla fine. Quando ritornai padrone di me, chiesi: — Ma… è lucido?
— Sembra abbastanza lucido, ma è debolissimo. Quella settimana di prigionia è stata una prova massacrante per lui, più di quanto pensassimo. Dopo il collasso è rimasto in coma per ventiquattr’ore, e ora ha la parte sinistra del volto paralizzata; inoltre, quella stessa parte del suo corpo non si può muovere.
— Oh. Cosa ne dice il professor Capek?
— Ritiene che appena l’embolo si sarà sciolto, Bonforte ritornerà nelle condizioni normali; ora però ha bisogno di molta tranquillità, più di prima. Comunque, Capo, adesso è malato. Dobbiamo quindi rassegnarci a terminare la campagna elettorale senza di lui.
Provai un’ombra di quel senso di smarrimento che mi aveva colto quando era morto mio padre. Non avevo mai visto Bonforte, non avevo mai avuto nulla da lui, oltre a poche correzioni scribacchiate su qualche pagina dattiloscritta. Ma fino a quel momento mi ero sempre appoggiato a lui. Il fatto di sapere che era in quella stanza, dietro la porta, mi aveva reso possibile tutto ciò che avevo fatto fino ad allora.
Trassi un lungo sospiro, lo lasciai uscire, e dissi: — Va bene, Rog. Lo faremo.
— Sì, Capo. — Si alzò. — Dobbiamo andare a quella riunione. Ma… e quella? — Indicò col capo la lista dei seggi "sicuri".
— Già… — mormorai, pensoso. Dopotutto era possibile che Bonforte fosse pienamente disposto a premiare Bill conferendogli il privilegio di farsi chiamare "l’onorevole", tanto per farlo contento. Bonforte era piuttosto generoso in questo genere di cose; non metteva la museruola ai giovenchi che gli macinavano il grano. In una sua opera politica aveva scritto: "Io non sono un intellettuale. Però, se ho un talento particolare, forse è quello di scegliere uomini abili e incoraggiarli a operare".
— Da quanti anni Bill lavora per lui? — chiesi ad un tratto.
— Come? Ah, da circa quattro anni. Forse qualche mese di più.
Evidentemente Bonforte apprezzava la sua opera.
— Quindi era già con lui alla data delle scorse elezioni generali. Perché non l’ha fatto eleggere all’Assemblea, allora?
— Be’, non lo so. Non se n’è mai parlato.
— Quand’è che Penny fu eletta?
— Circa tre anni fa, in un’elezione suppletiva.
— Quindi lei ha già la risposta.
— Temo di non capire.
— Bonforte avrebbe potuto fare eleggere Bill alla Grande Assemblea in un momento qualsiasi — dissi. — Ma non l’ha fatto. Tolga quindi il suo nome, e lo sostituisca con quello di un rassegnatario. Se Bonforte desidera che Bill abbia la carica, potrà sempre farlo eleggere con un’elezione suppletiva… quando lo desidererà.
Il volto di Clifton non mostrò alcuna espressione. Egli si limitò a prendere la lista e a dire: — Molto bene, Capo.
Qualche ora più tardi Bill si licenziò. Immagino che fosse stato Rog a comunicargli che il suo tentativo di forzarmi la mano non era riuscito. Ma quando Rog mi comunicò l’accaduto, provai un profondo senso di malessere e mi sentii colpevole. La mia forse eccessiva ostinazione poteva averci messo tutti in un grave rischio. Ne parlai con Rog, e lui scosse la testa.
— Ma conosce tutto! — esclamai. — È stato lui ad avere l’idea, fin dall’inizio. Pensi un po’ a quante cose esplosive sul nostro conto potrà raccontare al Partito dell’umanità!
— Non se ne preoccupi, Capo. Bill è un individuo spregevole, e io non intendo più avere a che fare con lui; un uomo che ti pianta in asso a metà campagna elettorale: sono cose che non si fanno, mai! Ma Bill non fa la spia. Nella sua professione non si vanno a spifferare i segreti dei clienti, anche se si è litigato con loro.
— Spero che lei abbia ragione.
— Sì, lo vedrà lei stesso. Non se ne preoccupi. Pensi solo al nostro lavoro.
Nei giorni successivi dovetti persuadermi che Rog aveva ragione e che conosceva Bill meglio di me. Non sentimmo più parlare di lui, né direttamente né indirettamente, e la campagna elettorale andò avanti senza scosse, sempre più faticosa, ma senza niente che ci facesse pensare che il nostro gigantesco imbroglio fosse stato svelato. Cominciai a sentirmi meglio, e ritornai con impegno a pronunciare i discorsi di Bonforte. Davo il meglio di me stesso, scrivendoli a volte con l’aiuto di Rog, a volte con la sua semplice approvazione. L’onorevole Bonforte intanto, a detta del professor Capek, andava migliorando lentamente; tuttavia doveva rispettare un riposo assoluto.
Nell’ultima settimana, Rog si dovette assentare per recarsi sulla Terra; è impossibile sbrigare da lontano certe delicate faccende. Dopotutto, i voti provengono dalle circoscrizioni, e un organizzatore in loco talvolta è più utile di un oratore. Tuttavia era necessario che io continuassi a pronunciare discorsi e a partecipare a conferenze stampa. Tiravo avanti con l’aiuto di Dak e con Penny al mio fianco. È chiaro che ormai, a questo punto, ero entrato in profondità nelle cose; riuscivo a rispondere alla maggior parte delle domande senza dovermi fermare a rifletterci sopra.
Due volte la settimana tenevo una conferenza stampa nei miei uffici, e una di esse era appunto indetta per il giorno in cui attendevamo il ritorno di Rog. Avevo sperato che facesse in tempo ad arrivare per l’ora fissata, ma potevo benissimo partecipare anche senza di lui. Penny entrò prima di me, con la borsa dei documenti, e le sentii mandare un’esclamazione soffocata.
Fu allora che vidi Bill, seduto tra i giornalisti, all’estremità opposta del tavolo.
Feci finta di nulla, mi guardai intorno, e dissi con la consueta disinvoltura: — Buongiorno, signori.
— Buongiorno, signor Primo Ministro — risposero alcuni di loro.
— Buongiorno Bill — aggiunsi. — Non sapevo che ci fosse anche lei. Da chi è inviato?
Tutti zittirono rispettosamente per permettere al nostro dialogo di svolgersi con maggior facilità. Naturalmente, tutti i presenti sapevano benissimo che Bill ci aveva piantati in asso… o che era stato licenziato. Mi fece un sorriso bieco e rispose: — Buongiorno, onorevole Bonforte. Lavoro per l’agenzia Krein.
Compresi subito le sue intenzioni, ma non volli dargli la soddisfazione di mostrare timore. — Ottima organizzazione — commentai. — Spero che la paghino per quel che vale. Ma ora, al lavoro. Prima le domande che mi avete sottoposto per iscritto. Le hai tu, Penny?
Sbrigai con rapidità questa parte della conferenza stampa, fornendo le risposte che avevo preparato preventivamente, poi mi misi a sedere comodamente, come facevo sempre, e dissi: — Abbiamo ancora il tempo di discuterne un po’, signori. Avete altre domande da fare?
Naturalmente, ne avevano parecchie. Fui costretto a trincerarmi dietro un "Nessun commento" una volta sola: Bonforte preferiva rispondere così, piuttosto che fornire delle affermazioni ambigue. Alla fine diedi un’occhiata all’orologio e dissi: — Allora direi che basta, per questa mattina, signori — e feci le mosse di alzarmi.
— Smythe! — gridò Bill.
Mi alzai come se niente fosse, e non rivolsi lo sguardo verso di lui.
— Ehi, parlo a lei, fasullo onorevole Bonforte! Smythe! — continuò lui rabbioso, gridando ancora più forte.
Questa volta lo guardai, con stupore… quel tanto di stupore che ritengo si convenga a un’importante personalità politica che viene trattata con maleducazione in un momento in cui non se l’aspetta. Bill era in piedi, con l’indice teso verso di me e il viso paonazzo. — Impostore! Attorucolo da varietà! Imbroglione!
L’inviato del "Times" di Londra, seduto alla mia destra, domandò tranquillamente: — Vuole che chiami le guardie, onorevole?