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Penny mandò un gemito e svenne di nuovo.

10

Riuscimmo, non so come, ad arrivare anche all’ultimo giorno della campagna elettorale. Di Bill non ci giunsero più notizie. Dalle liste dei passeggeri dei traghetti lunari scoprimmo che era ritornato sulla Terra due giorni dopo il suo fiasco. Può darsi che qualche giornale abbia riportato tutta la storia del clamoroso incidente, ma noi non ne venimmo mai a conoscenza, né Quiroga vi fece mai cenno nei suoi discorsi.

L’onorevole Bonforte continuò a migliorare; c’era quasi la certezza che dopo le elezioni avrebbe potuto riprendere il suo posto. In parte la paralisi continuava a sussistere, ma avevamo preparato una spiegazione anche per quella: per prima cosa, egli si sarebbe preso un periodo di riposo subito dopo le elezioni, come facevano abitualmente quasi tutti gli uomini politici, trascorrendo la vacanza sulla Tom Paine, al sicuro da tutto e da tutti. Poi, in un dato momento durante il viaggio, io sarei stato trasferito di nascosto e riportato clandestinamente sulla Terra, mentre gli altri avrebbero diffuso la voce che il Capo, in seguito agli strapazzi della campagna elettorale, aveva sofferto di un piccolo collasso.

Rog avrebbe dovuto rimettere a posto una certa quantità d’impronte digitali, ma poteva provvedere con calma a questo aspetto della sostituzione, attendendo fino a un anno o anche più.

Il giorno delle elezioni mi sentivo felice come un gattino nella scatola delle scarpe. La sostituzione era ormai terminata, anche se dovevo ancora compiere qualche breve "siparietto". Avevo già registrato due discorsi per la rete stereovisiva imperiale, entrambi della durata di cinque o sei minuti. In uno mi dichiaravo magnanimamente soddisfatto della vittoria, nell’altro ammettevo con signorilità la sconfitta; il mio lavoro terminava lì. Una volta registrata l’ultima parola e impacchettato il nastro, afferrai Penny e la baciai. Parve che lei non se ne accorgesse neppure.

L’ultimo "numero" che mi restava da fare era ordinato dall’alto. L’onorevole Bonforte voleva vedermi nei suoi panni prima che lasciassi per sempre la parte. Ora la cosa non mi dava più disturbo. Finito il periodo del massimo sforzo, non correvo più alcun pericolo nel fargli visita; recitare la sua parte per intrattenere lui stesso sarebbe stato un qualsiasi numero d’imitazione, con la sola differenza che l’avrei recitato dal vero. Ma cosa sto dicendo? Recitare dal vero è l’essenza stessa della professione drammatica!

S’era convenuto che tutti gli intimi si sarebbero riuniti nel salotto belvedere perché Bonforte, dopo essere rimasto al chiuso per varie settimane, desiderava rivedere almeno le stelle. Lì avremmo ascoltato i risultati elettorali, e poi avremmo brindato alla vittoria o annegato il dispiacere della sconfitta nell’alcol, ripromettendoci di far meglio la prossima volta. Cancellate per favore il mio nome dal cast della "prossima volta"; lì terminava la mia prima e ultima campagna elettorale, e non desideravo ritornare mai più alla politica. Non ero neppure sicuro di desiderare di ritornare a recitare. Recitare ogni minuto, ininterrottamente, per più di sei settimane, equivale a circa cinquecento rappresentazioni di lunghezza normale. Ero già stato fin troppo tempo sulla ribalta.

Lo portarono su con l’ascensore, dopo averlo fatto accomodare su una poltrona a rotelle. Io non mi feci vedere, e lasciai che lo sistemassero sul divano prima di fare il mio ingresso; un uomo ha il diritto di non mostrare la sua debolezza di fronte agli estranei. Inoltre volevo che il mio ingresso sulla scena si svolgesse secondo tutte le regole.

Al vederlo, la sorpresa fu tale che per poco non dimenticai la parte. Somigliava a mio padre!… Oh, era solo una vaga rassomiglianza "di famiglia"; io e lui ci somigliavamo molto di più di quanto entrambi non somigliassimo a mio padre, ma la somiglianza c’era, e anche l’età, perché Bonforte appariva decisamente vecchio. Non avrei supposto di trovarlo invecchiato così. Era esile, emaciato, e aveva i capelli completamente incanutiti.

Al primo sguardo presi mentalmente nota che, durante le ormai prossime vacanze nello spazio, io avrei dovuto aiutarlo a prepararsi per il passaggio delle consegne. Senza dubbio Capek avrebbe trovato il modo di mettergli un po’ di carne sulle ossa, ma anche nel caso contrario si può sempre riuscire a far apparire un po’ più robusto un uomo, senza doverlo imbottire in modo appariscente. Io stesso, inoltre, avrei potuto tingergli i capelli. Spostando l’annuncio del collasso che l’aveva colpito, poi, si potevano spiegare anche certe piccole differenze altrimenti ingiustificabili. In fin dei conti, egli aveva davvero subito tutto quel cambiamento in poche settimane; occorreva solo evitare che la cosa facesse ritornare alla mente le voci di una sostituzione.

Ma questi particolari d’ordine pratico si affacciavano da soli in un angolino della mia mente perché, dominante sopra ogni altro sentimento, mi sentivo sopraffatto dall’emozione. Per quanto fosse malato, da quell’uomo emanava una grande forza, sia spirituale che fisica. Sentii quella scossa di sacralità e di calore che si prova quando si ammira per la prima volta la grande statua di Abramo Lincoln. E mi ricordai anche di un’altra statua, vedendolo disteso sul divano con le gambe e la parte immobilizzata coperte da uno scialle: il Leone Ferito di Lucerna. Ne aveva la stessa forza, la stessa dignità imponente, anche se inerme: "La Guardia muore ma non si arrende".

Alzò lo sguardo su di me, vedendomi entrare; mi sorrise con quel sorriso calmo, benevolo, pieno di comprensione che avevo imparato a imitare, e mi fece un gesto con la mano sana perché mi avvicinassi. Gli rivolsi un sorriso, identico al suo, e mi avvicinai a lui. Mi strinse la mano con una stretta sorprendentemente forte e mi disse con cordialità: — Sono felice d’incontrarla, finalmente. — Parlava con una certa difficoltà, e ora, vedendolo da vicino, mi accorgevo come la parte del volto più distante da me rimanesse immobile.

— Mi sento onorato e felice di fare la sua conoscenza, signore. — Dovevo dominarmi con sforzo per non imitare il suo modo di parlare inceppato dovuto alla paralisi.

Mi osservò a lungo, da capo a piedi, poi commentò, sorridendo: — A quanto vedo, lei la mia conoscenza l’ha già fatta…

Piegai il capo e mi diedi un’occhiata anch’io. — Ho cercato, signore.

— "Cercato!" Lei c’è riuscito perfettamente. Fa davvero uno strano effetto, vedersi davanti a se stessi…

Compresi con doloroso stupore che non si rendeva conto di come fosse cambiato; l’aspetto con cui mi ero presentato davanti a lui gli sembrava sempre essere il "suo", e tutti i mutamenti sopravvenuti nel suo fisico non venivano presi in considerazione: li giudicava temporanei, portati dalla malattia. Intanto continuava a parlare:

— Le spiacerebbe fare qualche passo per la stanza? Sarei curioso di vedermi, cioè vedere lei… sì, vedere noi; per una volta voglio guardare dal punto di vista del pubblico.

Allora io raddrizzai le spalle e feci qualche passo per la stanza; parlai a Penny (la poverina continuava a osservare prima l’uno e poi l’altro, e aveva l’aria smarrita), presi un giornale, mi passai un dito nel colletto e mi strofinai il mento, mi tolsi la verga marziana da sotto il braccio e ci giocherellai un poco.

Bonforte mi guardava deliziato. Mi sentii in dovere di concedergli un piccolo extra. Ritto in mezzo al tappeto, pronunciai le frasi finali di uno dei suoi migliori discorsi, senza preoccuparmi di ripeterlo parola per parola, ma interpretandolo, lasciando che spumeggiasse, che scorresse fluente e che scrosciasse, come avrebbe fatto lui. Terminai con le sue stesse parole: — Non si può liberare uno schiavo se non è lui stesso a liberarsi, né si può rendere schiavo un uomo libero; il massimo che si può fare è ucciderlo.

Al termine della perorazione vi fu un silenzio reverente e commosso, rotto subito da uno scroscio d’applausi. Bonforte stesso batteva sul divano con l’unica mano capace di muoversi e gridava: — Bravo!

Fu l’unico applauso che ricevetti per tutta la durata della mia interpretazione. Ma fu sufficiente.