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Poi Bonforte volle che andassi a sedermi accanto a lui. Vidi che dava un’occhiata alla verga e gliela consegnai.

— C’è la sicura, signore.

— Sì, so come si usa. — La osservò con attenzione, poi me la ridiede. Avevo pensato che se la sarebbe tenuta; poiché non l’aveva fatto, decisi di consegnarla a Dak perché gliela desse poi. Mi chiese affabilmente di me e disse di non ricordare d’avermi mai visto sulla scena, ma di avere visto un’interpretazione di mio padre del Cirano. Faceva uno sforzo enorme per controllare i movimenti della bocca, che tendeva a storcersi, e parlava chiaramente ma con penosa lentezza.

Poi mi domandò che intenzioni avessi per l’avvenire. Gli confessai di non aver fatto ancora progetti, e lui assentì. — Vedremo — mi disse. — C’è posto anche per lei. Abbiamo ancora molto lavoro da fare. — Non fece parola di compensi e ciò mi colmò d’orgoglio.

I risultati elettorali stavano cominciando ad arrivare; Bonforte rivolse l’attenzione allo stereovisore. Naturalmente, i risultati stavano già affluendo da quarantotto ore perché i mondi esterni e i collegi elettorali non legati a una circoscrizione definita votano prima della Terra, e perché anche sulla Terra un "giorno" d’elezioni dura più di trenta ore, a causa dei diversi fusi orari. Ma ora cominciavano ad arrivare i risultati delle circoscrizioni importanti dei grandi continenti. Avevamo iniziato già il giorno prima ad azzardare pronostici basati sui risultati delle circoscrizioni esterne, e Rog s’era sentito in dovere di dirmi che non avevano molto significato; il Partito espansionista stravinceva sempre sui mondi esterni. Ad avere realmente importanza erano i miliardi di persone che si trovavano sulla Terra: quelle che non se n’erano mai allontanate e che non avevano alcuna intenzione di farlo.

Ma tutti i voti esterni ci erano utili. Il Partito agrario di Ganimede aveva conquistato cinque seggi su sei; faceva parte della Coalizione, e il Partito espansionista non aveva messo in lista neppure candidati simbolici. La situazione su Venere era invece molto più pericolosa: i venusiani erano divisi in decine di partiti che si distinguevano tra loro per qualche sottilissima sfumatura di teologia politica, incomprensibile agli esseri umani. Tuttavia pensavamo che la maggior parte dei voti indigeni sarebbe stata per noi, sia direttamente, sia per mezzo di coalizioni patteggiate al vertice, da decidersi dopo le elezioni; inoltre avremmo dovuto prendere anche quasi tutti i voti umani del pianeta. Le restrizioni imperiali imponevano agli indigeni di eleggere esseri umani come loro rappresentanti a New Batavia; Bonforte si era impegnato a far togliere queste restrizioni: la cosa ci aveva fatto guadagnare voti su Venere, ma non si poteva ancora dire quanti voti ci avrebbe fatto perdere sulla Terra.

Poiché i nidi inviavano all’Assemblea solo degli osservatori, l’unico voto marziano che contasse era quello umano. Le simpatie popolari erano per noi; i nostri avversari avevano in mano l’amministrazione politica. Ma se non ci fossero stati brogli elettorali, ci aspettavamo un’affermazione clamorosa.

Dak era al fianco di Rog, chino su un calcolatore; Rog aveva davanti a sé un grosso foglio di carta su cui stava facendo calcoli servendosi di una complicata formula bilanciata di sua invenzione. Una decina dei più potenti cervelli elettronici del Sistema Solare stavano eseguendo gli stessi calcoli, quella notte, ma Rog si fidava soltanto delle sue congetture. Una volta Rog aveva affermato di riuscire a passare per una circoscrizione, di "annusare" l’aria, e d’arrivare a un risultato che non si discostava più del due per cento da quello giusto. Credo che dicesse il vero.

Il professor Capek rimaneva tranquillamente seduto, le spalle appoggiate allo schienale, le mani sulla pancia, rilassato come un bruco. Penny non faceva che camminare avanti e indietro, mettendo a posto le cose in disordine e viceversa, e portandoci da bere. Evitava accuratamente di guardare sia me che l’onorevole Bonforte.

Era la prima volta che partecipavo a un party della notte dell’elezione. Queste festicciole sono diverse da qualsiasi altra. Si ha una sensazione calda, intima, dove tutte le passioni si sono consumate. In definitiva non ha poi molta importanza la decisione degli elettori: avete fatto del vostro meglio, siete in mezzo agli amici e ai conoscenti, e per un certo periodo non c’è nessuna preoccupazione, nessuna tensione, nonostante una certa eccitazione comune per i risultati che stanno per giungere. È come quando la torta è ormai cotta: occorre solo metterci lo zucchero vanigliato.

Non ricordavo d’avere avuto da molto tempo dei momenti così tranquilli.

Rog alzò gli occhi, mi osservò, poi parlò all’onorevole Bonforte: — Questi risultati dell’Europa hanno gli alti e bassi di un’altalena. Gli americani stanno immergendo la punta del piede prima di venire in massa dalla nostra parte; si chiedono: "Quanto sarà profonda quest’acqua?".

— Può già fare una previsione, Rog?

— Non ancora. Sì, il voto popolare è nostro, ma se si vanno a calcolare i seggi alla Grande Assemblea, al momento attuale potrebbe ancora esserci una maggioranza di una decina di rappresentanti sia per noi che per loro. — Si alzò. — Forse è meglio che vada a fare un giro in città.

A dire il vero, ci sarei dovuto andare io, nelle mie vesti di "onorevole Bonforte". È infatti naturale che il leader politico si faccia vedere alla sede del Partito per qualche momento, nella notte dell’elezione. Ma io non mi ero mai fidato d’entrare nella sede, perché è uno di quei posti dove trovi sempre qualcuno che t’attacca bottone, imprevedibilmente: lì la mia sostituzione correva il rischio di farsi scoprire. La "malattia" mi aveva sempre fornito una scusa per non andarci durante la campagna elettorale; nella notte dell’elezione non valeva il rischio di fare atto di presenza, e così sarebbe andato Rog al posto mio, a stringere mani, a fare sorrisi, e a prestarsi agli abbracci e ai pianti commossi delle attiviste che s’erano sobbarcate la parte più dura e interminabile del lavoro d’ufficio. — Tornerò tra un’ora.

La nostra piccola festicciola si sarebbe dovuta svolgere sotto, al piano inferiore, e avrebbero dovuto parteciparvi tutti gli impiegati dell’ufficio, soprattutto Jimmie Washington; ma non lo si sarebbe potuto fare senza escluderne automaticamente lo stesso onorevole Bonforte. Anche gli impiegati, naturalmente, stavano facendo una festicciola identica alla nostra. Mi alzai. — Rog — dissi — vengo anch’io a salutare le ragazze di Jimmie.

— Come? Non ce n’è bisogno, lo sa.

— Sì, ma mi pare che sarebbe la cosa giusta da fare, no? E poi non mi dà nessun fastidio, e non mi pare comporti dei rischi. — Mi volsi verso l’onorevole Bonforte. — Lei che ne pensa, signore?

— Ne sarei felicissimo.

Scendemmo con l’ascensore e attraversammo le stanze deserte e silenziose dell’appartamento, poi passammo per il mio ufficio e per quello di Penny. Al di là di quella porta c’era una specie di manicomio. Un ricevitore stereo, portato lì per seguire i risultati, berciava a pieno volume; per terra era pieno di cicche e di bicchieri di carta sporchi, e tutti stavano fumando, o bevendo, o tutt’e due le cose. Perfino Jimmie Washington reggeva un bicchiere in mano mentre ascoltava i risultati. Si limitava solo a reggerlo, a dire il vero: Jimmie era astemio e non fumava. Senza dubbio glielo doveva avere passato qualcuno, e lui l’aveva tenuto; Jimmie aveva un senso molto sviluppato: quello "della cosa giusta al momento giusto".

Feci il giro delle stanze, sempre con Rog al fianco, fermandomi a scambiare qualche parola con questo e con quello, e ringraziai con particolare calore e sincerità Jimmie Washington. Poi, accusando molta stanchezza, mi accinsi a congedarmi. — Vado di sopra a riposarmi un po’, Jimmie. Vuole scusarmi lei presso gli altri?

— Certo, signore. Lei dovrebbe prendersi un po’ più cura di sé, se posso dirlo, signor Primo Ministro.

Risalii quindi nel salotto panoramico, mentre Rog invece usciva verso le gallerie pubbliche e la sede del Partito.