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Appena uscii dall’ascensore, vidi Penny venirmi incontro in punta di piedi, con il dito indice sulle labbra. Bonforte s’era assopito e avevano messo al minimo l’audio dello stereovisore. Dak era seduto davanti alle immagini e riempiva di cifre un foglio di carta, in attesa del ritorno di Rog. Capek non s’era mosso. Mi fece un segno col capo e levò verso di me il bicchiere.

Accettai da Penny uno scotch con soda, poi uscii nella terrazza belvedere. Era notte, tanto d’orologio quanto di fatto, e la Terra era quasi piena, accecante in mezzo a una miriade di stelle scintillanti come gemme. Scorsi l’America del Nord e cercai d’individuare la piccola macchia da cui m’ero allontanato solo poche settimane prima; mi sforzai di non lasciarmi sopraffare dalla commozione.

Poco dopo, ritornai nel salotto: sulla Luna la notte fa un effetto troppo sconvolgente. Rog ritornò dopo qualche decina di minuti e si rimise sopra i suoi calcoli senza dire parola. Mi accorsi che Bonforte era di nuovo sveglio.

Cominciavano a giungere i risultati decisivi, e tutti rimanevano in silenzio per permettere a Rog con la sua matita e a Dak con il suo regolo di lavorare senza essere disturbati. Dopo un lungo, lunghissimo intervallo Rog spinse indietro la sedia. — Ci siamo, Capo — disse, senza alzare gli occhi. — Siamo in vincita. Una maggioranza di almeno sette seggi, probabilmente diciannove, forse anche trenta.

Dopo una pausa, Bonforte domandò tranquillamente: — Ne è sicuro?

— Sicurissimo. Penny, per favore, cambi canale, così controlliamo.

Io andai a sedermi accanto a Bonforte. Avevo la gola chiusa e non riuscivo a parlare. Lui mi dette un colpetto paterno sulla mano e tutt’e due restammo con lo sguardo fisso sullo stereovisore. La prima stazione che Penny riuscì a captare stava dicendo: — … alcun dubbio, amici. Otto cervelli elettronici dicono di sì. Il CURIAC dice forse. Il Partito espansionista ha ottenuto una decisiva… — Penny passò a un altro canale.

— … conferma per i prossimi cinque anni il suo mandato provvisorio. Non riusciamo a metterci in contatto con l’onorevole Quiroga per ottenere dichiarazioni, ma il suo organizzatore generale, da noi intervistato a New Chicago, afferma che non è più possibile che s’inverta l’attuale…

Rog si alzò per andare al visifono; Penny abbassò l’audio dello stereovisore perché non lo disturbasse. Restammo a guardare l’annunciatore muovere la bocca; probabilmente ripeteva con parole diverse le cose che già conoscevamo.

Rog ritornò, e Penny aumentò di nuovo il volume. L’annunciatore parlò per un istante, poi si fermò, lesse qualcosa su un foglio di carta che qualcuno gli aveva passato, rialzò la testa con un largo sorriso. — Amici e concittadini! Ora lascio la parola al Primo Ministro per una comunicazione!

La sua immagine scomparve e fu sostituita dal mio discorso di vittoria.

Rimasi a guardarmi, raggiante; provavo un complesso d’emozioni confuse e commosse, tutte d’una soddisfazione quasi dolorosa. Avevo messo molto impegno in quel discorso, e lo sapevo; avevo un aspetto stanco, sudato, ma avevo anche un’espressione di tranquillo trionfo. Suonava proprio adatto all’occasione.

Ero appena arrivato a: — Avanziamo dunque uniti, con la libertà per tutti… — quando udii uno strano rumore alle mie spalle.

— Onorevole Bonforte! — gridai. — Professore! Professore! Svelto!

L’onorevole Bonforte annaspava verso di me con la destra, come a richiamare la mia attenzione, e apriva penosamente la bocca nell’inutile sforzo di dirmi qualcosa d’importante. Ma non ci riuscì; la sua povera bocca si rifiutò di servirlo, e la sua indomita forza di volontà non riuscì a farsi obbedire dal corpo ormai troppo provato.

Lo presi tra le braccia, ma ormai era già entrato in respirazione Cheyne-Stokes e dopo pochi istanti sopraggiunse la fine.

Dak e Capek riportarono la salma nella sua stanza con l’ascensore. Io non sarei stato capace di muovere un dito. Dak venne a darmi un’affettuosa manata sulla spalla, poi se ne andò. Penny era già scesa con gli altri. Dopo un po’ uscii sulla balconata. Sentivo il bisogno di un po’ d’"aria fresca", anche se lì c’era la stessa aria della sala, pompata attraverso il sistema di condizionamento. Tuttavia sembrava un poco più fresca sulla terrazza.

L’avevano ucciso. I suoi nemici l’avevano ucciso, proprio come se gli avessero piantato un coltello nella schiena. Nonostante tutto quello che avevamo fatto, nonostante i rischi che avevamo corso, alla fine erano riusciti ad assassinarlo. "Mai crimine fu più scellerato!"

Mi sentivo annientato, istupidito dal colpo. Avevo visto morire "me stesso", avevo rivisto morire mio padre. Capivo, in quel momento, perché quando muore un fratello siamese è così difficile che l’altro si salvi. Ero come svuotato.

Non so per quanto tempo restai lì, solo. Ricordo che d’improvviso sentii la voce di Rog chiamare: — Capo?

Mi volsi. — Rog — gli dissi con intensità — non mi chiami così, la prego.

— Capo — insisté lui — lei sa quello che le resta da fare, no?

Provai un senso di vertigine e mi parve che il suo viso si nascondesse dietro un velo di nebbia. Non sapevo a che cosa stesse alludendo… non volevo saperlo.

— Cosa intende dire?

— Capo… un uomo muore, ma lo spettacolo continua. Lei non può lasciarci ora.

La testa mi doleva; continuavo a vedere tutto confuso. Mi sembrava che Rog ondeggiasse avanti e indietro, e da lontano mi giungeva la sua voce: — … gli hanno strappato la possibilità di completare la sua opera. Deve dunque farlo lei al posto suo. Lei deve farlo rivivere!

Scossi la testa facendo un grande sforzo per rientrare in me e per rispondergli. — Rog — dissi lentamente, con voce stanca — lei non si rende conto di quello che dice. È assurdo. È ridicolo! Io non sono un uomo di Stato, ma soltanto un miserabile attore. Faccio delle smorfie per far ridere il pubblico, non sono capace di fare altro.

Con mio grande orrore, m’accorsi che stavo pronunciando quelle parole con la voce di Bonforte.

Rog mi guardò fisso. — Mi pare che fino a questo momento lei se la sia cavata benissimo.

Sforzandomi di ritornare alla mia vera voce, di riprendere il controllo della situazione, risposi: — Rog, lei è sconvolto. Non sa quel che dice. Quando sarà ritornato in condizioni normali, si renderà conto lei stesso dell’assurdità della sua richiesta. Lei ha ragione: lo spettacolo deve continuare. Ma non nel modo che dice lei. La cosa giusta da fare, l’unica cosa da fare, è che lei stesso diventi capo del Partito. L’elezione è vinta, avete la maggioranza; ora potete formare il nuovo Governo e passare a svolgere il vostro programma.

Mi guardò a lungo, poi scosse tristemente la testa. — Lo farei, se potessi, lo confesso. Ma non posso. Capo, ricorda quelle maledette riunioni del Comitato Direttivo? Era lei a tenerli a freno. Tutta la Coalizione è rimasta insieme grazie alla forza magnetica e al polso fermo d’un solo uomo. Se ora lei ci verrà a mancare, tutti gli ideali per cui lui è vissuto… ed è morto… cadranno a pezzi.

Non sapevo cosa rispondere. Forse Rog aveva ragione: nel corso del mese e mezzo precedenti avevo potuto vedere i complessi ingranaggi della politica. — Rog, anche se quello che dice è vero, la soluzione che mi prospetta è impossibile. Siamo riusciti a malapena a tener in piedi questa finzione mostrandomi solo in talune condizioni che erano frutto d’una attenta regia… e c’è mancato poco che ci scoprissero. Ma quanto a portare avanti la sostituzione una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, se capisco bene quello che lei intende dire… no, non si può fare. È assolutamente impossibile. Io non posso farcela!

— Sì che lei può! — Si piegò verso di me e mi disse con convinzione: — Ne abbiamo discusso tra noi, e ne conosciamo i rischi quanto lei. Ma lei avrà la possibilità di perfezionarsi gradualmente. Intanto, come inizio, due settimane nello spazio… diavolo, anche un mese, se vuole! Studierà per tutto il tempo: i suoi giornali, i suoi diari, i suoi quaderni d’appunti. S’immergerà in essi, e noi le saremo sempre accanto per aiutarla.