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Thorn chinò la testa sul braccio che era appoggiato al ginocchio e Duun continuò a pulire delicatamente l’acciaio affilato della lama con un panno oliato. Acciaio e odore di olio. Acciaio e olio. La mano mutilata teneva il panno, l’altra il coltello. — Rinuncia, Thorn. Tu sei hatani. Gli hatani non possiedono nulla. Solo le armi e il mantello. Questa volta perdi solo un posto. Quando sarai quello che sarai, non possiederai nulla di nulla. Io ho solo usato questo posto. Tu ed io. Era una tappa, e adesso è terminata.

Thorn sollevò la testa. Si era sporcato la faccia, strofinandosela. Aveva le ciglia bagnate. — Mi dispiace, Duun.

Le mani di Duun si fermarono in un lungo silenzio. Poi ripresero a pulire. — Hai perso un anno forse. Un anno qui. Forse due. Poi ce ne saremmo andati lo stesso. Non sono molti due anni. Stai piangendo. Fallo domani e ti picchierò. Hai sentito?

— Sì — disse Thorn.

Partirono all’alba. Camminarono adagio lungo il sentiero serpeggiante senza che Duun manifestasse segni d’ira. — Joiit — disse ad un tratto Duun indicando un uccello che cantava. Thorn pensò

allora che nel posto pieno di gente descrittogli da Duun forse non ci sarebbero stati uccelli; e il canto che veniva dai boschi gli diede una fitta al cuore. E anche il vento fra le foglie. Camminando sentiva la polvere morbida come seta sotto i suoi piedi doloranti e il braccio gli faceva male. Avevano chiuso la casa ed erano usciti dal cortile. E prima che la costruzione sparisse definitivamente dalla loro vista, si erano voltati a guardarla. Aveva lo stesso aspetto di quando se ne andavano a caccia. La luce era la stessa sui muri di pietra bruna, con gli hiyi che vi crescevano tutt’intorno, verdi listati di lavanda; tutto quanto da quella distanza, aveva il colore della terra, come ogni mattina. La casa sembrava aspettarli. Avrebbe continuato ad aspettarli, giorno dopo giorno. Qualcuno sarebbe venuto, aveva detto Duun, per portare via ciò che era rimasto nelle stanze. Poi sarebbero arrivati i contadini a riprendersela. I bambini avrebbero esplorato le stanze, avrebbero giocato a nascondersi nel cortile…

… e cacciato nei boschi. Avrebbero scoperto il vecchio albero su cui era bello sdraiarsi al sole e la roccia cava che sovrastava lo stagno fra le colline. Avrebbero inoltre imparato i sentieri e le piste dove l’aveva condotto Duun.

Thorn non versò lacrime. Quando il cuore gli faceva troppo male, guardava il cielo, la strada, diceva qualcosa, non importa cosa, stringeva le dita attorno al braccio ferito, e il dolore lo distoglieva dai ricordi. Lo fece anche quando l’uccello cantò, quando il vento sollevò le foglie e quando si rese conto che sentiva l’odore delle cose, per quanto fosse insensibile agli odori: la polvere, le foglie, e il profumo aspro dei fiori di lugh, fortissimo se uno li schiacciava; come aveva fatto lui, più di una volta, da bambino, ritrovandosi la mano appiccicaticcia per la linfa: lo stesso aroma della luce del sole.

Una marea di impressioni gli si riversava addosso. Il paesaggio lo affliggeva con addii lungo tutta la strada. E Duun non diceva quasi nulla. (Duun era stato giovane anche lui, negli stessi luoghi. Conosceva il vecchio albero, la roccia… i sentieri: li ha mostrati a me. E io li ho presi da lui. Duun!)

Gli alberi si stendevano ai lati della strada in un mare di cime verde e porpora. Al di là di essi, più in basso, c’era la valle dove vivevano i contadini, e oltre ancora una pallida foschia di terra, piatta: e un cielo immenso, di un delirante viola e azzurro, e strisce di nuvole come ghiaccio in uno stagno, alte sopra la pianura, che si perdevano in un bianco latte.

Thorn provava un senso di terrore. Il cielo era troppo grande dietro le montagne. Volare, aveva detto Duun. C’erano macchine; Duun ne aveva parlato. Più di una volta, quando erano venuti i medici, ne aveva vista una lontana, prima che sparisse dietro le montagne. Altre volte c’erano delle strisce bianche nel cielo: aeroplani, aveva detto Duun. Della gente ci volava dentro. (Dove, Duun? Dove vanno? Perché ci vanno? Possono vederci? Thorn-bambino aveva agitato la mano verso quegli aeroplani, in piedi sulla roccia più alta a cui poteva arrivare: “Sono qui, qui, qui!”.)

(Guardatemi. Fatemi segno che mi avete visto. Io sono qui. Siete come me? Vedete altri bambini dove andate? Hanno la pelle come la mia? E occhi come i miei? E anche loro hanno cinque dita?)

(Migliaia e migliaia di shonunin nella città. Ce ne saranno come me?) La strada scendeva fra gli alberi e fuori da essi. Lontano, si sentiva un rumore che il vento non faceva mai, che diventava più forte: un fracasso di macchina, quel rumoreggiare sinistro che aveva sempre annunciato l’arrivo dei medici. — Stanno arrivando — disse Duun. Saranno là prima di noi. Ci aspetteranno.

Gli stranieri gli vennero incontro lungo la strada. Non erano medici. Si presentarono vestiti da capo a piedi in blu e grigio, e portavano armi. Thorn esitò quando li vide, ma Duun continuò a camminare; così Thorn capì che non c’era da temere. — Non c’era bisogno — disse Duun quando s’incontrarono. — Abbiamo degli ordini — disse uno di loro. Fu tutto. Durante l’incontro Thorn rimase fermo a una curva della strada. Gli stranieri lo guardarono, poi girarono lo sguardo altrove come se lui non contasse niente e fosse soltanto un’appendice di Duun. Un attimo dopo, la gente vestita di blu ripartì verso il basso, con uno di loro dietro e un altro a fianco di Duun. Di colpo la montagna cessò di essere loro. La possedevano degli stranieri che erano venuti a guastare i loro ultimi momenti in quei luoghi di sogno. Sapeva perché Duun non li voleva. Ma Duun non avrebbe detto loro di no, e camminò senza guardare gli alberi e le pietre, come aveva fatto prima che arrivassero. Duun era addolorato. Thorn lo sapeva. (Colpa mia. Sono stato io. Dovrebbero prendere me, e andarsene, e Duun avrebbe ancora la sua montagna.) Ma nessuno aveva offerto a Thorn questa alternativa. Forse non esisteva.

Sempre più giù. Dopo la curva non rimaneva che l’ultimo pezzo di strada prima della pianura.

Una macchina era ferma sul prato; aveva grandi eliche. Aveva appiattito un cerchio attorno a sé, nell’erba verde-lattea. Grandi strade polverose si incontravano in quel punto, e della gente era ferma all’incrocio, a una certa distanza.

— Li abbiamo tenuti lontano — disse un uomo che fino ad allora non aveva parlato. Non era un uomo come Duun, come Ellud, come i medici. Aveva fianchi più larghi, camminava in maniera differente e aveva una voce più bassa. Donna, pensò Thorn, sentendola, e il cuore accelerò i suoi battiti.

(“Le donne” aveva detto Duun, quando lui era piccolo, “sono come noi e diverse da noi.”)

(“Diverse come?” aveva chiesto Thorn.)

(“Dentro. Fuori, per certe cose. Hanno dentro un posto dove fanno i bambini. Gli uomini ce li mettono. Le donne li fanno.”)

(“Come?” aveva chiesto Thorn-bambino. “Questo li fa” aveva detto Duun, e gli aveva mostrato cos’era. “Io non ce l’ho”, aveva detto Thorn, guardandosi. “Duun, io non ce l’ho. Il mio è tutto fuori.”)

(“Tu sei diverso”, aveva detto Duun.)

(“Sono una donna?”)

(“No. Sei un bambino. Sarai un uomo.”)

(“Come fanno le donne a fare i bambini?”)

Duun non gli aveva risposto. Oppure se n’era dimenticato. Thorn aveva appreso la risposta più tardi. (“Vedi questi?” aveva detto Duun, mostrandogli un piccolo dentro un deiggen che Thorn aveva ucciso. “Sono bambini. Non devi uccidere la femmina. Vedi la punta delle orecchie? Non ucciderle.”)

Thorn se ne ricordava. Aveva preso un piccolo di deiggen dal ventre, e l’aveva appoggiato su una roccia piatta, per guardarlo. Non era il fatto che fosse morto che ricordava di più, o il sangue, ma che non aveva peli: aveva la pelle nuda, come la sua.