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(Sono nato male. Mi hanno tirato fuori troppo presto.)

Aveva guardato dei foenin accoppiarsi. (È così che si fa? Era rimasto inorridito e contemporaneamente interessato dai corpi neri l’uno sul dorso dell’altro, e dagli strani spasimi che li scuotevano, come se uno di loro fosse ammalato.)

(“Gli shonunin lo fanno di fronte, di solito”, aveva detto Duun. Thorn era rimasto doppiamente inorridito. Era già abbastanza strano farlo da dietro. Ma avere una che ti guardava in faccia…)

Questa… donna… ondeggiava, camminando, e teneva una pistola alla cintola. Aveva una cresta bianco candido, ma se l’era rasata quasi tutta come facevano gli abitanti della città; non era come quella di Duun, lunga e nera, e che oscillava quando lui camminava.

Thorn pensò al foenin e strinse la mano per scacciare quel pensiero. Aveva già creato abbastanza problemi a Duun. Non era primavera. Non era il momento adatto. C’era qualcosa che riguardava l’odore, ma Duun non aveva voluto parlarne.

Camminarono sullo spiazzo verso la macchina, e il ricordo del foenin si dissolse nell’odore dell’olio e del metallo caldo. L’elicottero. Si sarebbero alzati nell’aria con quello. Sembrava troppo pesante. Thorn si dimenticò delle donne. Il suo cuore cominciò a battere per il terrore. (Sciocco, si disse. Dunn l’aveva avvisato. Quella cosa era arrivata lì e se ne sarebbe andata con loro dentro. Non avrebbe mostrato paura di fronte a degli estranei. Non avrebbe emanato odore di paura dove altri potevano sentirlo. Non avrebbe fatto vergognare Duun. Ti picchierò, aveva detto Duun, per richiamare la sua attenzione; Thorn se ne ricordò, e seppe perché Duun l’aveva minacciato. Per non essere svergognato da lui. Non avrebbe dunque esitato al momento di entrare.)

Duun guardava i contadini, gli spettatori che le guardie tenevano a distanza, sull’altra strada. Teneva le orecchie di traverso, escludendo quelle parole che il vento poteva portargli. Ne sentiva l’odore anche da quella distanza. Nella sua mente affiorò l’odio, e poi la paura. Era uno sciocco a chiudersi le orecchie; uno di loro poteva essersi portato un fucile.

Ma avevano chiamato il magistrato e avevano confessato. Per paura, pensò amaramente, di una più generale punizione. Per un tardivo senso di responsabilità. Da sedici anni aspettavano, nella speranza di ottenere la terra di Sheon.

(Adesso è vostra. Godetevela. E andate al diavolo.)

Si vergognò del pensiero. Era venuto lì in cerca di virtù, e ne tornava…

… ne tornava con quell’ombra al suo fianco. E gli sguardi freddi di coloro che avevano visto un hatani venire meno ai suoi voti. Un hatani che aveva vissuto per sedici anni nella paura di ciò che alla fine era successo.

Bene, bene. Non era un errore, forse. Duun guardò l’elicottero, scambiò convenevoli con il capitano delle guardie, spinse Thorn con un leggero colpo di artiglio sul braccio. — Vieni — disse Duun, guardando il capitano. (Facciamola finita. Non tirarla in lungo. Portaci via da qui.)

Mentre camminava accanto a lui, Thorn alzò la testa per guardare le pale… Duun lo colpì alla schiena. — Sciocco, tieni la testa abbassata sotto l’elica! — Thorn si chinò e proseguì; eppure il rotore girava ancora adagio, senza fare nemmeno vento.

Alla fine della scaletta li accolse un mondo di metallo con sedili in plastica. Tutto l’abitacolo odorava di olio e carburante. Duun lo fece sedere.

— Queste sono le cinture di sicurezza. Spingi, così. Questo serve a sganciarle. Questo per stringere. Tienile addosso. — Guardò Thorn negli occhi, nessun altro lo fece, e ci scorse il terrore. Duun aggrottò la fronte, andò al suo posto e si allacciò le cinture.

L’equipaggio prese posto e le guardie salirono a bordo, dietro, facendo ondeggiare l’elicottero. Il pilota diede gas al motore… whup, whup, whup! Thorn guardò dal finestrino, in avanti, e infine verso Duun che allungò la mano sul bracciolo e gli strinse il braccio, con gli artigli tutti fuori. (Comportati bene!)

Thorn si quietò. Il whup-whup-whup si fece più forte e l’elicottero s’inclinò, alzandosi; s’inclinò e girò la coda, mentre i contadini correvano nella polvere sollevata dalle pale.

Wh-wh-wh…! Cielo da una parte, terra dall’altra. Duun gettò un’occhiata a Thorn, e notò che aveva i muscoli del suo collo tesi mentre si aggrappava ai braccioli. Un’altra stretta con gli artigli. Thorn si rilassò visibilmente e si voltò a guardare Duun, con studiata serenità.

Duun fece scivolare le dita lungo il braccio di Thorn, fino al polso, dove le vene erano superficiali. Dal battito, pareva che il cuore gli scoppiasse da un momento all’altro.

— Tieni gli occhi sull’orizzonte — disse Duun all’orecchio di Thorn. — Ti aiuta a non stare male.

— Non sono spaventato — gli gridò Thorn. Ma in quel momento l’elicottero virò bruscamente verso ovest, e le dita di Thorn si strinsero spasmodicamente sul bracciolo.

Erano sopra la vasta pianura, oltre le colline: un’ora e più di alberi, strade e mandrie che correvano sotto di loro in una bruna marea. D’improvviso la grande distesa di una baia si aprì oltre un bordo marrone di alberi, con l’acqua che scintillava argentea nel sole, e si stendeva all’infinito verso sud. Thorn dimenticò la sua paura. — Cos’è — chiese indicandola col dito.

— La baia di Djohin — gridò Duun in risposta. — È il mare quello, pesciolino! Il grande, immenso mare!

Della terra apparve a est, al di là della superficie scintillante: le propaggini della città, una macchia contro il cielo. — Quello cos’è? — urlò Thorn, nel frastuono del rotore.

— E Pekenan — disse Duun. — Quello è il porto. La città è dopo. Ecco: là c’è il porto delle navette. Vedi quella striscia grigia?

— Cos’è un porto? — chiese Thorn. — Cos’è una navetta? — La sua pelle era bianca nella luce del sole che entrava dai finestrini laterali dell’elicottero. Sudava. Novità e stranezze si moltiplicavano. Quel viaggio era uno shock troppo grande per lui. (Non svenirmi adesso, pesciolino. Non qui. C’è dell’altro.) — Qui. — Duun frugò nella borsa ai suoi piedi e ne prese un inalatore che si era portato con il resto delle loro cose. — Mettitelo in bocca… Respira profondamente. — Schiacciò il cappuccio dello spray, Thorn tossì, si appoggiò allo schienale con un’espressione sorpresa e offesa, e perse il pallore e le sue pupille si dilatarono. — Ne vuoi ancora?

— No, Duun — disse Thorn, e si mise a guardare fuori dal finestrino.

Duun non aveva molta voglia di guardare. Sapeva quello che avrebbe visto. La capitale. Dsonan. Le case alte, dove gli shonunin vivevano uno sopra l’altro.

— Guarda là! — gridò d’improvviso Thorn, indicando il centro della città.

— Li ho visti, pesciolino. — Gli edifici alti non lo interessavano. — Atterreremo sopra uno di quelli. E ci vivremo dentro. — Per spiegare altre cose avrebbe dovuto gridare troppo. Il rumore dei rotori lo deprimeva. Ricordò la prospettiva dei canyon di cemento, gli edifici che passavano sotto di loro. Prese il polso di Thorn e appoggiò le dita sulla vena. Thorn lo guardò, sapendo quello che Duun faceva, con l’aria di vergognarsi enormemente per un cuore che non riusciva a controllare. — Guarda giù — disse Duun mentre cominciavano a volare sulla città. — Abituati.

Thorn non si ritrasse. Il battito accelerò, mentre il panorama della città scivolava sotto di loro. (- Cos’è quello? — chiese Thorn quando un treno sfrecciò sotto di loro.) Cos’è? Duun non voleva domande, per il momento. C’era tutto il tempo per farle, in seguito. Il polso batteva con insopportabile rapidità. — Scendiamo?

— Non sbagliano mai — disse Duun. — Guarda il tetto, pesciolino. Vedi quel cerchio? È li che atteniamo.