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La finestra offriva un ruscello e un bosco. A Duun non interessava. L’aria che veniva dal condizionatore odorava di bosco. Era come la sabbia color opale sul pavimento: sintetica e costosa. Thorn era meravigliato, toccò la finestra. — Giriamo? — (tutta la scena era in movimento.) — No — disse Duun, aspramente. — Te ne sei dimenticato? C’è una città dietro quel muro. Controllati. Questo non ti appartiene, e neppure a me. È lì e basta. Non farti impressionare.

(- A chi appartiene? -)

Duun si pentì di aver sollevato l’argomento. E forse Thorn sospettò di essere stato in compagnia di più di un’illusione, mantenuta a suo beneficio. L’eccitazione abbandonò Thorn e gli lasciò un’espressione di dolore, l’espressione tesa di chi è a corto di risorse. Le notti insonni, il purgante, la caccia, le ferite: un cuore che aveva lavorato più duramente dei motori dell’elicottero con cui erano giunti lì… che aveva subito forse tutto ciò che un cuore può sopportare, per un po’. Duun andò nella sua stanza, frugò nella borsa e ne prese un sedativo, andò in cucina e lo mescolò con il latte.

L’appartamento era più grande della casa di Sheon. C’erano quattro camere da letto, cucina, salotto, sala da pranzo, studio, bagno, palestra, una sala per prendere il sole (un falso sole); una biblioteca, una stanza con schermo, una sauna, un guardaroba, una dispensa, una lavanderia; e appartamenti per la servitù: ma questi erano vuoti. C’era infine un posto di guardia; che non era vuoto. Ma Thorn non sapeva nulla delle guardie, delle telecamere e del corridoio fuori dell’appartamento. Parecchie delle stanze avevano una luce “solare” molto simile a quella vera; e se uno voleva, poteva farci crescere delle piante. Il bagno e la camera da letto principale avevano uno schermo a tre dimensioni, che poteva funzionare anche da finestra… ma non era destinato a mostrare solo scene di natura. E uno poteva farsi tentare. La città offriva molti richiami: posti dove un uomo o una donna potevano andare e divertirsi. Un hatani doveva essere discreto. Ma anche un hatani poteva (con una donna discreta) trovare conforti fuori stagione. Duun appiattì le orecchie. Poche ore in quel posto, ed era come se sedici anni non fossero passati. Fatta eccezione per chi gli stava alle spalle.

Si voltò e porse a Thorn la tazza. — Per te. Bevi, poi vai a sdraiarti.

Thorn prese la tazza. Forse non era del tutto insensibile agli odori. I suoi occhi si fecero guardinghi. E pieni di perplessità.

— È un sedativo — disse Duun. — Bevi. Poi vai a sdraiarti. Dormirai.

— Duun. — Thorn appoggiò il latte sul tavolo. Era di nuovo pallido.

Si appoggiò alla parete: non era così forte come aveva voluto far credere; del resto, quand’era entrato, zoppicava. — Sei già stato qui?

— Vivevo qui. — Duun prese la mano di Thorn, prese la tazza e li unì fermamente. — Bevi. Devo convincerti, Thorn?

Thorn lo bevve tutto e rimise la tazza sul tavolo.

— Così hai scoperto quello che non sai — disse Duun. — Il mondo ti spaventa, Thorn? Qui, devi distinguere le illusioni dalla realtà, ecco tutto.

— Tu sarai con me.

— Haras-hatani. Thorn. Cosa sento? È un bisogno? È qualcosa che io ho e tu no? Cos’è questa cosa?

— Coraggio. — La voce di Thorn era rauca e vuota.

— Sento “non posso”?

— No, Duun-hatani.

— I medici ti vogliono. Vogliono di nuovo smontare te e quel braccio. Vogliono metterti addosso delle macchine e prendere pezzi della tua pelle e misurarti da capo a piedi. Gli ho detto di aspettare un giorno o due.

Silenzio. Gli occhi di Thorn erano dilatati. Non era solo il sedativo. — Grazie, Duun-hatani.

— Vai a letto.

Thorn si avviò, zoppicando. Non c’era stata ribellione. Eppure Thorn avrebbe potuto rivoltarsi. Duun guardò attraverso la porta vuota della cucina. La casa odorava dei lavori di riadattamento e degli aromi di bosco. Sotto il falso vento e le false immagini. E la sabbia sotto i suoi piedi callosi sembrava troppo sottile, come polvere.

Andò in camera e trovò Thorn a letto. Era notte. I sensi di Duun lo sapevano, anche se le immagini murali erano fuori sincronia e mostravano scene pomeridiane. Thorn dormiva tenendo le lenzuola, di un colore azzurro pallido, strette nella mano liscia e bruna. La faccia appariva incavata; la mascella più lunga e gli zigomi più sporgenti.

Gli ultimi cambiamenti. Quasi la maturità.

Duun selezionò immagini notturne. Le luci si spensero e una spolverata di stelle si accese sulle pareti, attorno al letto. Il condizionatore d’aria emanò un odore indefinito, qualcosa di sintetico e vagamente simile al mare.

— Bene, Duun?

Duun tirò su i piedi e incrociò le gambe sul rialzo (le maniere di città erano difficili da riprendere dopo sedici anni), appoggiò le braccia sulle cosce e lasciò cadere le mani in grembo. (Bene?) Guardò Ellud, che sedeva alla scrivania, circondato dagli accessori del suo ufficio: monitor e apparecchiature per la comunicazione. Come un ragno nella tela. Da lì era possibile mettersi in contatto con il mondo intero. — Sta bene — disse Duun. — Non credo che abbia subito danni. Una cicatrice o due… cosa vuoi che sia?

Ellud lo gaurdò; Duun lo guardò a sua volta, con un sorrìso di sbieco. Era una battuta, e alla fine Ellud lasciò capire che non gli piaceva. — La faccenda è stata sistemata. I contadini strisciano per la gratitudine. Il caso è chiuso.

— Bene.

— Ti sto evitando un sacco di questioni, Duun. Lo sai?

— Lo so. Tengano le mani lontane da lui. Diglielo. Non era mai salito su un elicottero. È capace di far funzionare tutti gli apparecchi della casa… a parte la lavapiatti, che non ha mai visto. È ciò che sono io. Te l’ho detto. I medici devono rispettarlo. O me la vedrò io con loro. No. Se la vedrà lui. Gli darò il permesso.

— Non te lo consiglierei.

— È hatani, Ellud.

— Un pugno di contadini quasi l’ha ucciso. Per l’amor del cielo, Duun, l’avrebbero ucciso! Che cosa stavi facendo?

— Scappavo. Per poco non uccidevano anche me, lo sai. Sei o sette uomini armati di fucile non sono da prendere alla leggera. Non ho insegnato a uno sciocco. E l’hanno sorpreso. Ma non con i fucili: con la loro reazione. Sono fortunati che sia scappato, molto fortunati. Anche se avevano i fucili. Puoi dirlo ai tuoi uomini.

— Non lo provocheranno.

— Non devono parlargli. La regola vale ancora. Prego, grazie, siedi. Inspira, espira. Nessun commento. Niente. E rispetto. Devono rispettarlo. Lo dico sul serio.

Ellud inspirò profondamente. — Quant’è maturo?

— Molto… per certi aspetti. Niente per altri. Ti ripeto: nessuno deve parlargli.

— Per quanto tempo?

— Per tutto il tempo necessario.

— Vogliono usare i nastri.

Duun aggrottò la fronte. — Dammi un po’ di tempo per questo. Ti dirò io quando.

— Ma… hai avuto a disposizione sedici anni!

— Anche lui. Chi sa di cosa ha bisogno? Voglio che i tuoi medici mi stiano lontani, Ellud. Oppure troverò un altro posto. Dall’altra parte del pianeta, se sarà necessario.

— Per tutto il tempo necessario, hai detto?

— Esatto.

— Va bene. Te li terrò lontani. Parlerò con loro. Forse dovresti prenderti un po’ di riposo. Fatti visitare anche tu.

— Non è di questo che ho bisogno.

— E di cosa hai bisogno?

— Dogossen è ancora in giro?

Un momento di silenzio. — Si è trasferita a Rogot, ha un marito. Il secondo.

Gli anni gli arrivarono addosso, tutti insieme, con un dolore sordo. — Bene. Hounai?

— Vuoi una donna, Duun? Chiederò a qualcuna del personale. Forse…

— Niente hatani. — Abbassò gli occhi e si soffermò sulle mani, quella sana e quella no. — Non voglio un’hatani. Niente del genere. È passato un sacco di tempo.