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— Spero di sì, per gli dei.

Duun alzò gli occhi. Era stata una mezza battuta. Le orecchie di Ellud si abbassarono ancora di più, sotto lo sguardo di Duun. — Credimi — disse Duun. — Prendimene una in affitto. Per gli dei, non voglio un’altra moglie. Niente sentimentalismi. E neanche una dello staff. Qualcuna del porto. Che ci pensino i servizi di sicurezza.

— Non sono il tuo…

— Chiamala amicizia. — La voce di Duun era rauca. Quando se ne accorse, le sue mani si strinsero e si allargarono. Con le orecchie ancora appiattite Ellud continuava a fissarlo come se volesse guardare da un’altra parte.

— Duun-hatani… — Molto cauto. Con paura, e sensibilità offesa, Ellud sentì le domande che gli ribollivano dentro e che non avrebbe mai formulato. Riguardavano il dolore, la solitudine, la ragionevolezza… Tacque, e ne seguì un lungo silenzio.

— Voglio anche qualcuno dello staff — disse Duun. (Cosa hai fatto, Ellud no Hsoin? Di cosa hai paura? Violenza? Vecchio amico… cosa ti aspetti?) — Buoni elementi. Giovani, che sappiano obbedire.

— Ma questa è una contraddizione. — La risata di Ellud fu affrettata, come se fosse ansioso di ridere, di portare la discussione su altri argomenti. La risata si smorzò. — Va be’. Quanti?

— Quattro, cinque. Maschi e femmine. Lascio a te la scelta. Deve imparare a stare con la gente. Dovrebbero essere più vecchi di lui. Diciamo sui venti, venticinque anni. E per gli dei, sarà meglio che abbiano i nervi a posto. Mi capisci.

Ci fu di nuovo un lungo silenzio. — Voglio incominciare con quei nastri.

— Hai dimenticato una cosa — disse Duun a bassa voce. — Sì, questo è il tuo ufficio. Ma non sei tu che controlli la faccenda. Sono io. Vecchio amico. Non sono un tuo impiegato appena arrivato in città dalla campagna. Non sono uno del tuo staff.

— Mi stanno addosso, Duun.

— Come, ti stanno?

— Il concilio.

Con un profondo sospiro, Duun chiuse gli occhi e ripensò ai boschi.

— Duun.

I suoi occhi si aprirono. Ellud sedeva come una statua. — Neanche loro controllano la cosa — commentò Duun. — Sedici anni. Memoria corta.

— Due membri sono morti. Rothon e…

— Lo so. Leggevo tutte le notizie, laggiù. Cosa credi che facessi? So chi è entrato, e cosa possono fare. Peccato, ma hanno a che fare con un hatani. Non possono farci niente.

— Duun… potrebbero cercare di ucciderti. Perfino questo.

Duun rise.

— Politica — disse Ellud. — Sarebbero dei pazzi a provarci, ma la politica ha reso pazza altra gente. Non prenderli alla leggera, Duun. Per questo ho messo le guardie alla tua porta. E ringrazia gli dei che le cose stanno così. La donna sarà una del mio staff. Sii gentile, Duun-hatani: alcuni di quei giovani sciocchi ti adorano.

Duun appiattì le orecchie. — Maledizione, Ellud.

— Vuoi liberarti di qualcos’altro oltre a quello, Duun-hatani?

— Salvami dagli sciocchi.

— Ci sto provando. Da uno che una volta amavo, Duun.

Duun rimase immobile per un lungo tempo. Alla fine sorrise, e sentì la cicatrice tirargli la bocca. Seguì una breve risata che fece allarmare Ellud. — Dei — esclamò Duun. — Sto affogando e qualcuno ha una corda.

Ellud sembrò ancora più allarmato. I suoi occhi erano completamente bianchi.

— Sono il padrone del mondo — disse Duun. — Le donne non vedono le mie cicatrici, il mio protetto mi adora, e il mio ultimo amico mi chiama sciocco. — Rise ancora, mise i piedi sulla sabbia e si alzò. — Mi piace — disse. E se ne andò.

Giovani muscoli si tendevano gonfiandosi sotto una schiena priva di peli e bagnata di sudore. Le braccia tenevano, e Thorn si tirava su e tornava giù, appeso alla barra, su e giù. Duun si avvicinò, camminando silenziosamente sulla sabbia, tutta peste e bagnata di sudore, della palestra, e rimase lì a guardare, con le braccia incrociate. Gli sforzi di Thorn volgevano alla fine: tirarsi su era ormai faticosissimo. Con gli artigli estratti e perverso umorismo, Duun gli diede un colpo sulla schiena. Thorn ebbe una scossa, completò la salita, poi si lasciò cadere sul pavimento con una capriola. Rimase lì per terra, a riprendere fiato. Duun strinse le labbra. — Non ti ho fatto male, vero?

— No. — Dal tono della risposta traspariva una certa cautela. Duun lo studiava. Thorn era diventato tranquillo; e adesso Duun stava pensando e lo guardava con estrema attenzione: una ragione più che sufficiente per essere cauto. C’era davvero molto in quel posto, dove le cose succedevano dietro le pareti, dove Thorn si svegliava per trovarsi sospeso nel cielo notturno, e soffocava un grido che avrebbe suscitato l’immediato disgusto di Duun. Perciò Thorn accendeva lui stesso le stelle ogni sera, e camminava incerto fino al letto; vi si sdraiava e s’imponeva di guardare in alto, come quando si stendeva sul fianco di una collina, d’estate, indifeso sotto il cielo che girava lentamente. Ricordava come si era sentito volando. Ricordava la terra che ruotava vertiginosamente sotto i suoi occhi, i cambiamenti di peso, e la sensazione di cadere amplificata dall’altezza che trasformava il bestiame in insetti e le valli in pieghe di stoffa. E il buio e le stelle lo prendevano, e lo facevano roteare fino a che quella sensazione di volare tornava, e lui rimaneva lì sdraiato, sopprimendo la paura solo addormentandosi. Alcune paure Duun gliele instillava per qualche ragione; di quella, Duun avrebbe riso. Thorn sentiva che era così… e il disprezzo di Duun era peggiore dell’altezza, peggiore di qualsiasi caduta. Adesso sperava nell’approvazione di Duun… la rapida occhiata, lo stringersi della bocca. Lavorava per queste piccole cose che però erano importanti. Il colpo che faceva male… quello era uno scherzo; Duun scherzava con lui, lo sfidava, e questo voleva dire… voleva forse dire che il ritegno di Duun verso di lui era finito… e con esso la sua pietà. Thorn avvertiva il disgusto di Duun per quel posto e per ciò che ce l’aveva condotto. (Perdonami, Duun-hatani. Perdonami di tutto: che è colpa mia se siamo qui; che sono impotente e ti deludo… Dei, non essere arrabbiato, Duun.)

Duun gli diede un colpo nella pancia. Forte. Thorn rimase fermo e si concentrò, aspettandosi qualche mossa improvvisa: un colpo che poteva staccargli la testa. Perché Duun sapeva che lui poteva schivarlo; Thorn ci pensò perdendo in questo modo la concentrazione. Improvvisamente rabbrividì e arretrò.

— Dov’è la mente, Haras?

Thorn si concentro di nuovo e Duun si piazzò alle sue spalle. Le orecchie di Thorn si tesero. Ascoltò il fruscio lieve dei passi di Duun sulla sabbia; ma il respiro rapido confondeva i fievoli rumori dietro di sé e lo metteva in pericolo. Non si mosse fino a quando non sentì Duun alla sua sinistra; poi voltò la testa, seguendo il movimento che aveva intravisto con la coda dell’occhio.

Lentamente Duun allungò la destra verso la faccia di Thorn… (un attacco?) Il cuore gli balzò in gola e lasciò che Duun gli toccasse la mascella. La stretta di due dita gli attanagliò delicatamente le guance, dove nessuna mano poteva toccarlo se non quella del suo maestro. Era vulnerabile. Lo sapeva e gli piaceva. Quando Duun scopriva un punto debole in lui, lo attaccava. Ma questo era permesso, era la sua sicurezza, che faceva rimanere tutti i giochi solo giochi. Duun non gliel’aveva mai tolta. Gli occhi scuri di Duun lo fissarono infondendogli forza, come il buio della notte, come il buio e tutte le stelle in cui egli roteava e periva.

— Di cosa hai bisogno, Haras-hatani?

(O dei, Duun… no.)

— Di cosa hai bisogno, Haras-Thorn? Perché ho superato la tua guardia? A cosa sei vulnerabile? Dimmi il nome di questa cosa.

— Sei tu, Duun-hatani. Ho bisogno di te.