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La stretta gli fece male, lo graffiò. — Cosa sono io per te, pesciolino?

Le parole gli mancavano. La stretta si fece più forte, poi si attenuò. Gli occhi di Duun guardarono altrove e Thorn poté battere le palpebre: era tutto un tremito.

— Sai cosa ti ho fatto, pesciolino? Sai quanto è stato facile? Pensi che potrei rifarlo? — chiese ritraendo la mano.

(Duun che lo teneva in braccio, vicino al fuoco, Duun che lo toccava, tutto il calore che c’era. Non essere più toccato. Non permetterlo né a Duun né ad altri…) Aveva gli occhi pieni di lacrime. (Stai piangendo. Fallo domani e ti picchierò.) — Sì — rispose Thorn. Il petto gli faceva male. — Sì, Duun-hatani. In questo momento potresti.

Gli occhi di Duun nei suoi. Scuri, freddi e profondi come la notte artificiale. Una seconda volta la mano di Duun si sollevò. (Questa volta ti farò male, Thorn.) Thorn sollevò la sua mano con grande lentezza e l’oppose a quella di Duun che sembrò soddisfatto. Gli girò intorno una seconda volta; la pelle sulla schiena di Thorn si accapponò e le natiche gli si tesero. Poi, Duun fu nuovamente di fronte a lui.

Questa volta, rapido come un fulmine, Thorn alzò di scatto la mano e colpì il palmo di Duun con uno schiocco echeggiante. Nessuna forza, poi, nessuna spinta dalle due parti. Duun fece un segno con l’altra mano. Thorn l’accettò, mantenendo la guardia mentre Duun staccava la mano e la metteva dietro la schiena.

Invitandolo a colpire. (Provaci, uccellino.)

— Non sono uno sciocco, Duun-hatani.

— Lo sei meno di una volta. — Riferendosi alla faccenda degli agricoltori, pensò Thorn. Era l’unico riferimento a quell’episodio in tutti quei giorni.

— Non sono pronto, Duun-hatani.

— Il mondo non sempre ti chiede se sei pronto, Haras. Non ne ha l’abitudine. — Duun infilò le mani nella cintura. — Avrai degli altri insegnanti. Ci sarò anch’io, per il momento. Ma ci saranno anche loro. Sono tutti giovani. Non sono hatani e sanno che tu lo sei.

(Gente come me, Duun? C’è qualcuno come me?) Ma la domanda gli rimase in gola. (“Di cos’hai bisogno, Haras-hatani?”) Era mortale. Lo scopriva in modi che, sapeva, era meglio non confessare. — Quando? — chiese. (Duun, non voglio altri insegnanti.)

(Voglio, pesciolino? Ho sentito voglio?) - Domani. Non darti arie, ricorda. Per certe cose sarai meglio, per altre peggio di loro. Sei bravo in matematica; imparerai dei nuovi metodi… calcoli che non si fanno a mente, ma con le macchine. Non sono hatani. Se ne colpisci uno, lo uccideresti. Capisci questo? Le tue reazioni sono troppo veloci. E loro non sanno come fermarti. Perciò le tue reazioni dovranno essere ancora più veloci: per impedirti di reagire del tutto. Lo capisci questo? Metti via il pugnale. Mettilo giù quando sei con questa gente. Apriti. Così. Immobile. — Una terza volta Duun allungò la mano verso la sua testa. La mano di Thorn si sollevò… si fermò indecisa. (Un trucco? Oppure cosa?) Lasciò che Duun gli toccasse la mascella e che scivolasse più in giù. — Bene — disse Duun. E ritirò la mano. — Ricordati di questo. Loro sono così. Nessuno di loro potrebbe fermarti. Nessuno ci riuscirebbe. Nessuno di loro sa come mettersi, come muoversi. Non ti toccheranno. Questa è l’unica cosa che capiscono. E se anche la dimenticassero… non reagire Capito, Thorn?

7

Erano cinque: Elanhen, un giovane con dei puntini neri sulla pelliccia grigia della schiena, le spalle larghe, gli occhi cauti rivolti verso il mondo e un sorriso pronto e diffidente; era il primo e il più affabile di maniere (il più saggio, pensò Thorn: le maniere sono tutto ciò che lui offre al mondo; tutto il resto lo tiene per sé.) C’era Cloen, un tipo piccolo, con delle chiazze sulla pancia. (“Non parlarne”, lo avvertì Duun, quando Thorn gli descrisse Cloen in quella maniera. “Ha ancora i segni da bambino.”) Cloen era quello meno espansivo e il più pronto ad aggrottare la fronte. (Ha una ferita, pensò Thorn. Sanguina nell’acqua. Cloen sarebbe un bersaglio facile, se gli fossi dietro.)

E Sphitti: esile e arruffato. Aveva il nome di un’erbaccia, come Thorn. Sphitti sedeva e pensava, pensava e parlava pochissimo.

Infine c’era Betan… una femmina; si muoveva con passo ancheggiante, aveva il sorriso sempre pronto e un’intelligenza più rapida di quella degli altri. Betan aveva un odore diverso; arricciava il naso verso di lui e sorrideva, guardandolo come nessuno l’aveva mai guardato; e questo lo spaventava. (Sicura di sé. Lei sa. Sa cose che io non so, sa di saperle e sa di potermi prendere.) Se Duun l’avesse guardato in quel modo e avesse riso dentro di sé come faceva Betan, Thorn si sarebbe gelato fino alle punte dei piedi. Non avrebbe mangiato e bevuto niente di ciò che poteva essere stato toccato da Duun e non avrebbe osato dormire nel suo letto. Che una persona estranea lo guardasse in quel modo, era di un fascino fatale. Rimase fermo a guardarla, la prima volta che s’incontrarono, facendo una faccia il più possibile immobile e inespressiva.

(Non conoscono le mosse, aveva detto Duun. Ma Duun aveva mentito altre volte.)

S’incontrarono, tutti e cinque, in una stanza, al piano sopra a quello in cui abitava con Duun. — Entra — disse Duun accompagnandolo alla porta d’ingresso piantonata da una guardia. Fece per lasciarlo, e questo riempì Thorn di panico. — Comportati bene. — Duun non disse: “ricordati di quello che ti ho detto”. Era quello che Duun non diceva che sempre gli pesava di più. Thorn doveva ricordarsi quelle cose senza che fosse necessario dirgliele. — Sì, Duun — aveva detto Thorn, e si affidò a se stesso, mentre la guardia apriva la porta e lo faceva entrare. Il tocco della mano di Duun sulla sua schiena era un congedo, non una spinta.

Quattro estranei si alzarono dalle loro sedie quando entrò: quattro estranei il cui odore mescolato era artificio e fiori insieme, in una stanza grande come la palestra, con il pavimento di sabbia bianca. C’erano cinque scrivanie, e le finestre, in quella bianca sterilità, mostravano boschi simili a quelli attorno a Sheon, un intrico per gli occhi e per la mente. Avrebbe odorato di paura per loro. Si fermò. — Salve — disse quello che avrebbe conosciuto poi come Elanhen. — Salve — rispose Thorn, assumendo l’espressione migliore che poteva, l’espressione che aveva visto sulla faccia di Duun quando incontrava i medici. — Sono Haras. — Per gli estranei era Haras, il suo nome hatani. Gli dissero i loro nomi, tanto per cominciare. — Siamo un gruppo di studio — aggiunse Elanhen. — Dicono che tu sei bravo.

Avrebbe potuto avere la pelliccia come loro, e quattro dita, e orecchie e occhi come i loro. (Sono diverso. Mi hanno sparato a Sheon. Non siete colpiti, almeno un po’?) Ma nessuno fece mostra di accorgersene.

(Duun, pensò Thorn, li conosce. Duun ha preparato tutto quanto.) Sentì le pareti di una trappola intorno a lui. Lasciò che lo facessero sedere sulla scrivania che sarebbe stata sua, e che gli mostrassero il computer. — Devi metterti alla pari con noi — disse Elanhen. — Siediti, Haras-hatani.

Thorn si sedette. Si mise la tastiera sulle ginocchia e provò. Aveva delle difficoltà con i tasti, ma non con la matematica. Una volta sbagliò completamente, e si vergognò; guardò Sphitti, aspettandosi del disprezzo.

— Riprova — disse Sphitti, senza rancore. — Riprova dall’inizio.

Gli altri lo guardavano. Thorn si concentrò, ricordò le istruzioni di Sphitti e questa volta fece tutto giusto.

— Bene — disse Betan, e Thorn la osservò guardingo. Bene non era una parola così facile da vincere. Sospettò che facesse dell’ironia.

(Cosa hanno in mente, quando lo faranno? A che gioco stanno giocando?)

Cercò di non fare errori. Ascoltò quello che gli dicevano e se lo tenne a mente.