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Duun non fece parola della scuola il giorno seguente, né il successivo. (Quando si muoverà?) Thorn dormiva con un occhio aperto, aveva paura del cibo e mangiava facendo grande attenzione ai sapori. (Non mi avvertirà la prossima volta. No. Si muoverà. Come? E quando?) Una sensazione di panico si era impossessata di lui e qualcosa gli scivolava fra le mani. Avvertiva la possibilità che Duun stesso potesse andarsene, adesso che c’erano altre persone a prendersi cura di lui.

(Di cosa hai bisogno, Haras-hatani?)

Avrebbe potuto svegliarsi, una mattina, e scoprire che Duun se n’era andato, solo perché Duun sapeva quanto disperatamente avesse bisogno di lui. E avere bisogno di lui era sbagliato.

Forse Duun aspettava qualcosa. (Che sia io ad attaccarlo, questa volta, a cominciare…) Ma Thorn avrebbe perso; gli eventi l’avevano provato. E coltivava un sospetto ancora più terribile: che se anche non fosse stato così, avrebbe perso ugualmente… Duun non tollerava la sconfitta. Duun se ne sarebbe andato. E lui sarebbe rimasto solo, alla fine, completamente solo fra i medici e gli estranei che gli avevano affibbiato. Perciò desiderava solo rimanere com’era, per sempre. E non dispiacere a Duun: due cose che si escludevano a vicenda. Seduto sul rialzo, suonò il dkin per Duun. (“Siamo in città”, aveva detto Duun, “e la gente in città usa il pavimento solo per camminarci sopra.” A Thorn sembrava una cosa irragionevole. Gli piaceva il calore della sabbia e la possibilità di modellarla come voleva lui. Ma Duun l’aveva detto; e lui faceva come Duun diceva.) Suonò le canzoni che conosceva e Duun gliene suonò altre. Thorn si sentì meglio nel vedere che in questo non c’erano cambiamenti, e Duun sorrise.

Un giorno ho percorso una strada che non avevo mai conosciuto; un giorno ho trovato un sentiero che non avevo mai visto. Ho camminato per le colline ho attraversato la valle, e ho incontrato un uomo furbo che nessuna canzone può descrivere. Non ho mai incontrato un uomo come lui: non riuscirò mai a dire quant’era diverso e uguale a me. Quest’uomo incontrai quel giorno. Aveva la mia faccia, aveva i miei occhi, aveva il mio modo di fare, davvero. Che sciocco sei, mi disse, e mi cantò la canzone che vi ho appena cantato.

Thorn si mise a ridere quando Duun ebbe finito. Duun sorrise e regolò una corda. — Dallo a me — disse Thorn.

— Ah, non c’è rivincita. Il mio repertorio è infinito. — Il labbro con la cicatrice si contrasse: gli succedeva quando sorrideva così. — Maledizione. — La corda si era rotta. Thorn ebbe un sobbalzo. — Era vecchia — osservò Duun. — Domani me ne procurerò un’altra. — Gli diede il dkin per metterlo via; Thorn prese lo strumento e lo mise con cura nella sua custodia. — Vai a dormire — disse Duun.

— Sì — disse Thorn. E si girò con le ginocchia sul rialzo, perché Duun si era alzato e gli era venuto alle spalle, e Thorn era diffidente. Alzò gli occhi. Duun lo fissò a lungo, poi si voltò e si allontanò. Il silenzio lasciò una sensazione di freddo addosso a Thorn. Chiuse la custodia.

(Stava pensando qualcosa. Stava progettando qualcosa. Voleva farmelo capire. Dei, cosa?)

Duun si fermò sulla soglia. Si voltò a guardare e proseguì.

(Aspetta che io faccia… cosa?)

(Duun fa mai qualcosa senza ragione? Fa mai la più piccola mossa senza ragione?)

(Ho paura di questa gente. Lo sa?)

Una confusione di luce bianca e di sabbia bianca… La palestra roteò e la sabbia incontrò la schiena di Thorn; rotolò su se stesso e si rimise in piedi, con le luci che gli esplodevano negli occhi.

— Ancora — disse Duun.

Il ginocchio sinistro di Thorn cedette e la gamba si piegò. Cadde sulle ginocchia con una scossa, sentendo le escoriazioni. La scivolata si era fatta sentire anche sulle spalle. Il sudore gli bruciava, lì. Alzò una mano, facendo segno di aspettare fino a quando lo stordimento non fosse passato.

Duun gli si avvicinò e gli prese la faccia fra le mani, gli sollevò le palpebre e gli tastò il cranio.

— Ancora — disse Thorn. Duun gli lasciò andare la testa con una violenza che lo fece ondeggiare, gli diede una pacca sull’orecchio e indietreggiò.

Thorn si rimise in piedi e rimase a gambe larghe, vacillante.

— Non hai imparato ancora tutto, pesciolino. Avanti, più adagio. Un poco alla volta, di nuovo.

Thorn venne avanti, allungò la mano, nella lenta danza che Duun voleva, si girò e rigirò finendo nuovamente contro il braccio di Duun, che si era mosso altrettanto adagio.

— Così si fa. Fallo, pesciolino.

C’era una contromossa. Arrivò contro la cassa toracica di Thorn, al rallentatore, e lui ne evitò la forza simulata. Il sudore gli volò dai capelli e bagnò la sabbia, mentre ritraeva sinuosamente il suo corpo. Duun lo affrontò, con le mani sulle ginocchia. Duun non sudava. La lingua ogni tanto gli ciondolava dalla bocca che si apriva mostrando i denti aguzzi. E con un guizzo la lingua raccoglieva la saliva. Duun si chinò, invitandolo ad attaccare. — Adagio, Thorn. Ho ancora dei trucchi in serbo.

Thorn aveva creduto di conoscerli. La luce che vide negli occhi di Duun lo allarmò: non aveva mai visto Duun impegnarsi al massimo contro di lui. Se ne rendeva pienamente conto.

La mano di Duun si allungò di scatto e lo toccò sulla guancia, quando lui venne avanti. — Sei morto. Morto, Haras-hatani.

Thorn si asciugò la faccia. La sua concentrazione era sparita. La recuperò. (Non farti ingannare. Scaccia la paura. Scacciala, pesciolino.)

Duun lo afferrò e lo piegò indietro, senza farlo cadere. Lo lasciò andare e Thorn si salvò dalla vergogna rimettendosi in piedi con una capriola. Sulla sua pelle sudata c’era appiccicata la sabbia.

Duun gli voltò le spalle e si allontanò.

— Duun. Duun-hatani. — La faccia gli bruciava.

Duun si voltò. — Non hai bisogno di dire non posso. Sei questo. Il mondo non aspetta i tuoi umori, pesciolino.

— Mettimi alla prova!

Duun tornò indietro e lo stese subito sulla sabbia. Poi rimase a guardarlo. — Bene, non è stato un non posso che ti ha steso, questa volta. Ti ho forse promesso un miracolo?

Thorn rotolò e cercò di fargli lo sgambetto.

Questa volta finì a pancia in giù, sputando la sabbia che gli si era attaccata alla faccia, alle mani e al corpo; aveva il ginocchio di Duun sulla schiena, e il braccio ritorto dolorosamente. Duun lo lasciò andare e si sedette sulla sabbia.

(Un invito?) Ma Duun alzò la mano. — No — disse. — Non sarebbe saggio.

Thorn sapeva dove l’avrebbe portato l’attacco: nella stretta di Duun, se si fosse rifiutato di volare sopra la sua testa. E con i suoi denti alla gola. “Mai attaccarmi corpo a corpo”, gli aveva detto e ripetuto Duun. “La natura ti ha fatto più piccolo.” E Duun quel giorno aveva sorriso, per sottolineare l’affermazione.

Thorn si sedette, abbracciandosi le ginocchia. Il sudore gli scendeva negli occhi. Si passò una mano sporca di sabbia sulla fronte, piegò le dita e le mostrò.

— Stai tirando fuori gli artigli, Duun-hatani. — Il dolore gli si gonfiava dentro, riempiendogli il petto: e non era solo il dolore di varie cadute sul pavimento. — Avresti potuto farmi a pezzi. Avresti potuto squarciarmi la gola. Qualunque persona normale… l’avrebbe fatto.

— Gli occhi — gli ricordò Duun, toccandosi l’occhio sul quale il sopracciglio sporgente gettava ombra. — È l’errore peggiore. Hai lasciato che ti arrivassi alla faccia. Non farlo mai.