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— Duun…

— Sheon appartiene a Duun, non è vero? Ti dico che è così.

— La sicurezza a Sheon…

— Puzzo. Te ne sei accorto, Ellud?

Una lunga pausa. — La tenuta…

— Mi hai offerto qualunque cosa. Non è questo che hai detto? Qualsiasi cooperazione? C’è forse al mondo uno shonun capace d’impedirmi qualcosa? Se volessi una donna, se volessi un uomo, se volessi denaro, o un tuo parente prossimo, Ellud… se volessi che il presidente se ne andasse nudo, e il tesoro per me…

— Sei hatani. Non lo faresti mai.

Duun guardò nuovamente la falsa sorgente che ribolliva nei suoi vapori invernali. — Dei! Ma tu hai fiducia in me!

— Sei hatani.

Duun lo guardò con occhi per la prima volta limpidi, da anni. Ma neppure questo riuscì a trattenere lo sguardo di Ellud.

— Ti prego, Ellud. Ho bisogno di pregarti? Dammi Sheon.

— Ci si sono stabiliti dei coloni. Hanno acquisito il diritto di proprietà, ormai.

— Falli spostare. Voglio la casa. Le colline. La mia “privacy”. Avanti, Ellud… vuoi che mi accampi nel tuo ufficio?

Ellud non voleva. Erano stati amici. Un tempo. Adesso Duun vide rabbassarsi guardingo delle orecchie. Come per vergogna. Come uno che corre un rischio che desidera correre. A qualsiasi costo.

— L’avrai — disse Ellud senza guardarlo. Gli artigli di Ellud si allungarono un po’, scostando dei fogli, mentre guardava distrattamente la scrivania. — Ci penserò io.

— Grazie.

Questo spinse Ellud ad alzare lo sguardo. Un’occhiata ferita. Era spaventato come gli altri. L’agonia di un’amicizia.

Di lealtà ferita.

— Lascia perdere — aggiunse Ellud, contro il suo interesse, contro ogni interesse. La lealtà ebbe un sussultò per quanto tardi.

— No. — Per un momento, si guardarono negli occhi, senza tirarsi indietro, né da una parte né dall’altra. Duun ricordò Ellud sotto il fuoco. Un uomo calmo, freddo. Ma alla fine gli occhi si spostarono, e qualcosa si ruppe.

L’ultima cosa.

Duun uscì, più libero, perché non rimaneva nulla. Neppure Ellud.

Solo il dolore. E si avvolse attorno quella solitudine, trovandola appropriata.

Arrivò alle colline di Sheon al mattino. Un vero mattino con il sole che si alzava rosa e oro dal crinale mentre il vento soffiava su di lui, in quella radura erbosa. Era il vento della sua infanzia, che ora gli sferzava il mantello, il mantello grigio di hatani, in cui erano avvolti lui e il bambino. L’attendente di Ellud mostrava segni di disagio, lì sulla strada polverosa che conduceva alle colline, mentre l’elicottero che li aveva condotti lì, se ne stava immobile e silenzioso in mezzo al campo. Le orecchie dell’attendente erano appiattite per il vento, che scompigliava la sua cresta ben tagliata e le pieghe ordinate del kilt. Il vento era freddo per un abitante della città, per un manomolle come lui. — È tutto a posto — disse Duun. — Te l’ho detto. Non c’è altra strada per salire che questa. Non devi aspettare qui.

L’attendente girò la testa verso i contadini che si erano radunati appena fuori portata di voce, in gruppi e in famiglie, incuranti del freddo. L’attendente avanzò verso la folla, agitando le braccia.

— Andatevene, andateyene, il mingi non ha bisogno di voi. Sciocchi — aggiunse voltandosi, perché si erano allontanati solo di pochi passi. Si chinò, raccolse dal bordo della strada il poco bagaglio e si mise la sacca sulle spalle. — Hatani, vi accompagnerò io.

Fu una sorpresa. Gli occhi dell’attendente e di Duun s’incontrarono con franchezza. Ellud sceglieva giovani come quello, riconoscendo i migliori e i più onesti. Per un momento a Duun parve che il sole splendesse su di lui in pieno, o forse era il profumo del vento vero, con l’odore dell’erba e di pulito. Di colpo sentì un moto del cuore verso quel giovane.

Ma fece un sorriso, da vecchio soldato qual era, e guardò la strada che portava in alto; questa volta era stato lui a distogliere gli occhi dall’innocenza e dall’adorazione del giovane. — Dammi la sacca — disse, e presala all’istante dalle mani del giovane, se la mise alla spalla destra. Il bambino lo teneva col braccio sinistro; era caldo e si muoveva sotto il mantello, strofinandosi fra le fasce come un vermetto.

— Ma hatani…

— Tu non vieni. Non ho bisogno di te.

S’incamminò.

— Hatani…

Non si voltò. Non guardò la gente delle montagne, che si era raccolta sulla strada, vicino all’elicottero. Alcuni di loro erano stati scacciati, ne era certo. Altri avevano ottenuto quelle terre quando lui aveva rinunciato, e adesso ne venivano bruscamente allontanati. Sentiva i loro occhi su di sé, i loro mormorii, nulla di definito.

— Hatani — sentì. E: — Alieno. — Non avevano bisogno di mormorare. Sentiva i loro occhi che cercavano di penetrare nel mantello. Erano tutti meravigliati per il suo aspetto fisico, e altrettanto per la creatura che portava con sé. “Hatani.” C’era rispetto in quella parola. — Cosa gli è successo alla faccia? — chiese un bambino.

— Taci — disse un adulto. E ci fu un silenzio improvviso, imbarazzato. Era un bambino. Non aveva ancora imparato cos’erano le cicatrici. Era solo franchezza.

Duun non li guardò. Non gli importava. Era hatani, colui che aveva rinunciato. Teneva le armi a portata di mano sotto il mantello e chiedeva una sola cosa al mondo: quelle colline, quel posto.

Un po’ di pace.

Che un hatani li scacciasse… I contadini di Sheon avevano senza dubbio creduto che il possesso di quei fondi ormai fosse fuori discussione. La terra era incolta, la casa vuota, e dopo dieci anni dalla rinuncia dovevano appartenere a loro, per legge.

Ma era come aveva detto a Ellud: non c’era nulla che non potesse chiedere e ottenere, nulla al mondo.

Sentiva i loro occhi. Forse si aspettavano che lui parlasse. Forse si aspettavano che mostrasse comprensione, che dicesse qualcosa per rassicurarli.

Ma lui tirò dritto passando al loro fianco, lungo la strada, la strada polverosa che conduceva verso l’alto, alla casa fabbricata con pietre del luogo e nascosta in mezzo alle colline.

Sentì l’elicottero alzarsi in volo. Si allontanò con piccoli colpi, come battiti di cuore, che echeggiavano dai fianchi delle montagne. Era andato e venuto spesso, la sera prima e nei tre giorni precedenti, insieme ad altri, portando provviste, equipaggiamenti speciali, e tutte quelle cose che rendevano soddisfatto Ellud e quelli della sua razza.

Stupidaggini.

Si preparò interiormente. Sapeva che Sheon doveva essere cambiata. Fece appello alla sua risolutezza, in questa come in altre cose. Aveva bisogno di virtù. La creò nell’abnegazione. La creò nell’indifferenza, quando arrivò, a mezzogiorno preciso, in cima alle colline e scoprì quello che i contadini avevano fatto a Sheon, e che si era immaginato: una distesa di nuovi edifici in pietra che distruggevano la bellezza di un tempo, quando Sheon appariva indistinguibile dalla roccia vivente della montagna che la fiancheggiava. Adesso la casa si stendeva senza arte, utilitaristica, con il cortile intorno sgombro e polveroso. Non ne fu sgomentato.

Solo quando entrò e scoprì che cosa avevano fatto Ellud e i suoi uomini… questo, questo davvero lo afflisse. Non c’era traccia del disordine che si aspettava di trovare (diverso rispetto al tempo della sua infanzia, di cui ricordava le pietre accuratamente lucidate, le sale ampie e i giardini di sabbia dove il vento tracciava disegni), tutto era in perfetto ordine: il governo aveva imposto la sterilità, aveva dipinto le pareti di pietra, coperto di sabbia bianca, non rossa, i pavimenti, installato una nuova cucina, nuovi mobili, con spese non indifferenti; e dovunque regnava un odore pungente di fissativi, pittura e sabbia cotta da poco.

Rimase lì fermo, in quel luogo pulito e sterile, stivato di provviste e arredato di mobili nuovi giunti dalla città.