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Ci fu un lungo silenzio. Poi: — I nastri, Duun. Per l’amor del cielo, puoi cominciare? Puoi farlo?

Duun lo fissò, pensandoci. — Sì.

Erano seduti insieme, Elanhen, Betan, Sphitti e Cloen. — Le cose stanno così — disse Elanhen. — Ci hanno sorteggiato insieme. Tutti. Tu sei stato unito al gruppo. Se non impari, il fallimento è di tutti.

— Perdiamo i nostri lavori — disse Betan.

— Qual è il vostro lavoro? - chiese Thorn, perché tutto ciò che dicevano lo stupiva.

Le loro facce si avvicinarono alla sua, allora, per dei segreti che non volevano divulgare.

— Hai un problema — disse Betan, chinandosi sulla sua spalla, mentre lui batteva sulla tastiera che teneva in grembo e guardava una finestra, dall’altra parte della stanza, sulla quale delle linee di luce s’intersecavano accendendosi e spegnendosi. — Se questa è la traiettoria, con questa accelerazione dove la intercetterai?

Qualche volta i problemi avevano un senso vago. E qualche volta no.

(Cosa c’è al mondo che si presenta in gruppi di duecentoventiquattro?)

(Stelle, Alberi, Erbe. Le vie di un Fiume. L’ostinazione di un bambino.)

(Posso calcolare la velocità del vento, nominare le stelle, le città del mondo…)

— … in ordine, le particelle…

Betan gli sfiorò il braccio chinandosi su di lui. Lei aveva un odore diverso e nessuna reticenza con lui; non badava affatto a come si chinava. La sua gola era senza difesa, e il corpo, coperto da una pelliccia liscia, le odorava di muschio…

— Esatto — disse Sphitti, mentre si raccoglievano attorno alla sua scrivania, sedendosi sui bordi. — Adesso ecco un’applicazione. Se fossi sospeso in aria, senza attrito né gravità…

(Stanno cercando di incastrarmi.) — Non è possibile.

— Supponiamo di sì.

Betan agitò un orecchio verso di lui. Forse era uno scherzo a sue spese.

— Scrivi — disse Cloen.

— Non ne ho bisogno.

— Lasciamolo fare come preferisce — disse Sphitti. A questo punto doveva fare assolutamente tutto giusto.

— Esatto — disse Elanhen dopo aver ascoltato la risposta.

— Maledetta arroganza hatani — commentò Cloen, senza essere proprio fuori portata di voce, seduto alla propria scrivania in compagnia di Elanhen.

Gli fece male. Thorn non era immune a queste cose.

(Duun, cosa devo fare quando la gente mi insulta? Quando mi odia? Come rispondo, Duun?)

Ma non lo chiese mai ad alta voce. Si vergognava troppo. E pensava di dover trovare una risposta da solo.

— Solo i suoni — disse Betan. — Non importa cosa vuol dire. È un test di memoria. Ascolta il nastro e memorizza i suoni.

— Non sono neanche parole!

— Fai finta che lo siano. Prova. Registra. Ripeti finché non senti alcuna differenza.

Thorn guardò Betan e Sphitti. Due paia di occhi grigi. Si sentì indignato, come se l’avessero architettato loro. Ma non avevano mai scherzato con lui, non durante le lezioni.

S’infilò l’auricolare e ascoltò. Cercò di rifare quel balbettio. (Rideranno. Sembra acqua che scorre.) Li guardò, ma stavano facendo altre cose, con il computer. Tornò al suo lavoro, si mise le mani sugli occhi, e chiuse fuori il mondo.

(Ricordando i giorni sulla veranda di Sheon, i fiori di hiyi…)

Ripeté i rumori del nastro; lo rallentò, lo accelerò e ne memorizzò le sequenze. Era più difficile della fisica di Sphitti. L’auricolare gli faceva dolere le orecchie.

— Ne ho abbastanza — disse, dopo aver registrato i suoni una prima volta, e dopo che loro si furono raccolti attorno per ascoltare. Non avrebbe mai detto una cosa del genere a Duun, ma loro l’accettavano.

— È l’unica cosa che devi fare di mattina — disse Elanhen. — Insisti.

Thorn rimase seduto alla scrivania. Pensava di poterli battere tutti (anche Betan, perché Duun gli aveva fatto credere di essere bravo.)

— Al lavoro — disse Cloen.

— Torno a casa — disse Thorn.

— Non puoi. La porta è chiusa. La guardia non ti lascerebbe passare.

— Zitto, Cloen — disse Betan. — Thorn, fai quello che devi fare. Te lo chiedo per favore.

Thorn guardò cupamente Cloen, e anche Betan. (Ma era piacevole sentirsi dire “per favore”. Nessuno lo faceva. Gli venne in mente che dovevano pensarci a cosa fare se fosse diventato recalcitrante; e che dovevano avere paura di lui (anche Betan) come lui doveva averne di Duun. E questo era un pensiero piacevole.)

Fermò il registratore e ritornò al punto dov’era rimasto. Gli altri si sedettero ai loro posti e lui fece quello che Betan gli aveva chiesto finché l’orecchio e la testa non gli fecero male.

Ma mentre se ne stavano andando, fece in maniera che Cloen lo sfiorasse.

Buttò Cloen contro la parete dell’anticamera con un movimento del braccio. I suoi compagni e la guardia fuori dalla porta rimasero immobili ed esterrefatti, come in un quadro.

— Sono hatani. Toccami ancora una volta e ti romperò il braccio.

Cloen aveva le orecchie abbassate e la bocca spalancata. Si mosse dalla parete e guardò Elanhen. — Non l’ho neppure sfiorato!

Thorn uscì. Una scorta lo accompagnava sempre a casa. Un’idea di Duun. Ordine di Duun. Thorn fece un gesto all’uomo che lo attendeva e si avviò imperterrito senza voltarsi.

— Vai in palestra — disse Duun uscendo dal suo studio; non era nelle consuetudini, ma Thorn andò lo stesso. Poi, tutto a un tratto, si fermò, e Duun lo spinse.

— Mi pare che tu mi abbia colpito — disse Duun, con un’ombra scura negli occhi; e una paura improvvisa inondò Thorn, come acqua ghiacciata. Indietreggiò. No, non aveva colpito Duun. E immediatamente gli venne in mente una cosa: che qualcuno avesse preso il telefono e avesse informato Duun dell’accaduto. — Cosa dovrei fare? — chiese Duun. — Bene, Haras-hatani.

— Mi dispiace, Duun. — Thorn sudava. (Avanti. Vienimi addosso!) La sua concentrazione andò a pezzi. Non osava tirarsi indietro, adesso. Non aveva mai affrontato Duun arrabbiato; non l’aveva mai visto così. (O dei, Duun, non uccidermi!)

— Il coltello, pesciolino. Posalo. Hai sentito. Ti dico di metterlo giù.

Thorn si sentì sbilanciato e ritrovò l’equilibrio sollevando la testa. Rimase lì, con le braccia penzoloni e le ginocchia che gli tremavano.

— Bravo. — Duun gli diede una pacca sulla guancia. — Bravo.

(O dei, Duun, no!)

La punta di un artiglio si mosse delicatamente lungo una guancia, fino alla mandibola. — Voglio parlarti. — La mano afferrò Thorn per un braccio e lo scaraventò barcollante fino al centro della stanza.

— Duun-hatani, mi dispiace!

— Siediti.

Si sedette sulla sabbia appena rastrellata. Duun si accoccolò di fronte a lui.

— Perché ti dispiace? — chiese Duun. — Per Cloen o per me?

— Per te, Duun-hatani. Non avrei dovuto farlo. Mi dispiace. Lui…

— Cos’ha fatto?

— Mi odia. Mi odia, ecco tutto. Ed è astuto, non lo fa vedere.

— Più astuto di te? Haras-hatani, se è così, sono senza parole.

Thorn avvampò in faccia. Guardò la sabbia. — Cloen si sforza di essere astuto. E qualsiasi cosa io faccia, è sprecata con lui.

— Tu sei diverso; proprio come Cloen, con le sue macchie da bambino. E sospetti che tutti se ne accorgano. E vuoi garantirti che tutti ti rispettino. Ho ragione?

— Sì, Duun-hatani.

— Hai bisogno di una cosa, Haras. Lo sai? Sapresti dirmela?

— Non essere diverso.

— A voce più alta.

— Non essere diverso, Duun.

— È stata una cosa ragionevole quella che hai fatto?