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(Non un altro attacco, per favore Duun, no…)

L’ombra svanì dagli occhi di Duun e tornò la ragione. Si alzò in piedi, rizzò le orecchie, e fece un sorriso con il lato sinistro della bocca, che unito alla piega permanente su quello destro, gli dava un’aria d’ingannevole innocenza.

— Un bagno caldo — disse Duun.

— Tutti e due. Stai tremando, pesciolino.

— Non l’ho fatto apposta. Credevo…

— Domani faremo delle figure semplici. Me l’aspettavo. Al punto in cui siamo, possiamo farci male. Basta con gli esercizi senza regola. È diventato troppo pericoloso.

(Non ho vinto. Non l’ho battuto, non c’è modo di batterlo senza ucciderlo…)

Duun si allontanò. Zoppicava, ma non molto. Thorn si pulì la faccia dal sudore, e si accorse che la mano gli tremava.

(Tutte le volte che mi ha promesso… l’ha sempre saputo).

Non riusciva ad applicarsi alle lezioni. I numeri scorrevano senza significato. E se studiava la storia, le date gli rimanevano nella mente, ma i nomi gli sfuggivano.

— C’è qualcosa che ti preoccupa — disse Sphitti. — Fai gli esercizi fonetici. Quelli puoi farli.

Lo sentì come un insulto. (Sono hatani, avrebbe voluto gridargli; niente mi preoccupa.) Ma purtroppo era la verità. Cloen gli girava attorno guardingo. Elanhen lavorava in silenzio alla tastiera, su qualcosa di astruso e statistico, mentre Betan lanciava occhiate a Thorn da sopra la spalla, senza dire nulla.

Posso aiutarti? Disse il messaggio sul suo schermo.

Dopo, rispose lui, e nient’altro.

(Duun l’aveva truffato. Duun l’aveva manovrato per tutta la vita. Ma perché Duun, aveva passato tutto quel tempo dedicandosi a un solo allievo? Perché Duun era così ricco, e i contadini vivevano in una casa col tetto di lamiera? Ovviamente non adesso che avevano ottenuto Sheon. Perché Duun aveva quel posto, che era sulla cima di uno degli edifici più alti di Dsonan, la capitale del mondo, dov’era il potere? Perché proprio io? Perché Duun? Perché tanta fatica?)

(Perché so così poco delle cose che voglio sapere, e tanto di quelle che non m’interessano? Perché chiudono a chiave le porte, e le guardie ci accompagnano sempre in giro per l’edificio? Guardie per cosa? Per noi o per qualcun altro?)

(Una volta vivevo qui, ha detto Duun).

(Ellud è un vecchio amico.)

(Sono cresciuto a Sheon. Come Duun. Dove ha conosciuto Ellud?)

I numeri si fecero confusi. Thorn, inserì la funzione alfabetica.

Betan Betan Betan, scrisse, e ancora. Betan, e riempì lo schermo con il tasto ripetitore.

Le ore si trascinarono e quando l’orologio segnò mezzogiorno, spensero in silenzio i terminali e si alzarono dalle loro scrivanie. Ma Thorn non spense il suo terminale. Aveva detto alla guardia che sarebbe rimasto a lavorare. — Sono indietro con la storia — disse quando Shitti glielo chiese. Gli altri uscirono senza rivolgergli la parola, chiacchierando fra loro… forse Betan aveva cambiato idea, forse si era dimenticata, forse non aveva dato nessuna importanza alla cosa. Sentì la porta chiudersi, si voltò e vide Betan rientrare.

Betan si diresse alla scrivania di Thorn ed entrambi si sedettero sul bordo, con le ginocchia vicine. Lei aveva un’aria grave, e lo guardava con quella calma che solo lei aveva, neppure Duun. Si era accorta di qualcosa che non andava. Thorn lo sapeva, e il suo cuore cominciò a battere più forte mentre il respiro gli si fece più rapido; ma lei odorava di fiori e di se stessa, come il sole e il calore. — C’è qualcosa — disse lei, lasciando traspirare dal volto una grande ansia. Nessuno, Thorn ne era certo, si rivolgeva a lui così apertamente. — Cos’è?

— Quasi ho battuto Duun ieri. — Thorn rimase turbato per la facilità con cui quell’affermazione esagerata gli era venuta. E non poté più tirarla indietro.

— Si è arrabbiato?

— Non credo. — Il suo respiro si fece più rapido. — Betan, io sono sempre vissuto a Sheon… — (ma questo lei lo sa. Che modo stupido di cominciare) — …non conosco la città, non sono mai stato fuori, tranne una volta, quando sono arrivato. Tu vai fuori molto, vero?

— Oh, sì. Vado sulla costa ogni primavera.

(Facendogli venire in mente battute scurrili e barzellette da studenti, e qualcosa di mistico conosciuto da ogni maschio al mondo tranne che da lui, insensibile agli odori e nudo come un essere appena nato.) Betan gli sedeva vicina, con le ginocchia che toccavano le sue e con i grandi occhi scuri puntati su di lui. — Non ho mai imparato… — disse Thorn, perdendo subito il filo del discorso. (No. Lei non era hatani e lui non aveva bisogno di esserlo. Per una volta non aveva bisogno di essere complicato: doveva essere semplice con Betan, che una volta lo spaventava, e adesso gli aveva messo una mano sul ginocchio, e la faceva scivolare su.) Thron mise la mano su quella di lei. Sentì la pelliccia liscia come seta, e i muscoli scivolare sotto la pelle, tesi e vivi, mentre lei si piegava, si stirava e gli si appoggiava contro, con una mano sul suo corpo. — Non ho mai imparato…

Thorn sentì una serie di cose succedergli tutte insieme, cose interamente al di là del suo controllo. D’improvviso fu molto chiaro cosa voleva, e quello che il suo corpo stava facendo, da solo. La strinse a sé, e assaporò quella dolce sensazione finché osò, fino a quando non sentì che tutto gli scivolava via di nuovo. Le prese allora la cintura, slacciandogliela in fretta. Lei gli slacciò la sua. La testa di Betan gli scivolò sotto il mento, mentre lei si chinava sopra di lui; era tutta calda e il suo odore era cambiato.

Era paura. Thorn si tirò indietro, la scostò da sé tenendola per le braccia, e lei si agitò nella sua stretta… — Betan!

La porta si aprì alle sue spalle. Un uomo entrò dall’anticamera.

Betan si divincolò dalla stretta di Thorn, e si rimise in piedi.

Duun.

Betan si fermò, poi si rannicchiò e indietreggiò. Thorn si alzò. — Maledizione… Duun!

Duun si scostò dalla porta e fece segno a Betan di uscire. Lei esitò.

— Esci! — gridò Thorn. (Dei, la ucciderà…) — Betan! Esci!

Lei uscì precipitosamente nell’anticamera, poi dalla porta d’ingresso, come una preda in fuga. Duun la guardò uscire, poi fissò Thorn.

Thorn rimase con un piede sulla sabbia e un ginocchio sulla scrivania, e tremava per la reazione nervosa, mentre si rimetteva i vestiti. Duun era immobile come se fosse disposto ad aspettare per sempre.

— Lasciami solo — disse Thorn. — Duun, per amore degli dei, lasciami solo!

— Parleremo dopo. Torniamo a casa, Haras.

— Non ho nessuna casa! Un hatani non ha casa! Non ha niente…

— Parleremo dopo, Thorn.

Thorn era tutta una convulsione. Non c’era scelta. (Non c’è mai stata scelta. Torna a casa, pesciolino. Rinuncia, pesciolino. Fai finta che tutto sia a posto.)

(Ma lei ha avuto paura. Si è spaventata. Ha avuto paura di me…)

— Vieni — disse Duun.

— Avresti fatto meglio ad arrivare fra un po’!

Duun non disse niente. Tese la mano verso la porta. Thorn si staccò dalla scrivania, e la vista gli si fece indistinta. (Stai piangendo, Thorn.) Uscì come in una nebbia, con Duun a fianco; percorsero il corridoio fino all’ascensore rimanendo in completo silenzio fino alla porta della loro abitazione dove la guardia si tenne in disparte, come se avesse capito qualcosa.

Duun chiuse la porta e Thorn si diresse verso la sua stanza.

— Non c’era scelta — disse Duun. — Sai cosa le hai fatto?

— Non le avrei fatto del male! — Si girò di scatto, fissando Duun, dall’altra parte del corridoio. — Maledizione, non le avrei…