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— Dovrò spiegarti meglio l’anatomia.

— Non le avrei fatto del male! Avrei… avrei… — (Non posso, non potrei; ma toccarla, ed essere toccato da lei…)

— Immagino che ci avresti provato. — Freddamente, dall’alto della sua età e superiorità. — Il buon senso non c’era, Thorn. Lo sai.

— Dimmi. Spiegami. Dei, non m’importa quello che mi fai, ma le sei piombato addosso in quella maniera… Cosa credi di averle fatto, Duun-hatani? È questa la tua finezza?

— Ti ho promesso una risposta. Anni fa mi facesti una domanda, e io ti promisi la risposta quando saresti stato capace di battermi. Bene, ieri ci sei andato vicino. E questo basta.

Thorn rimase di sasso. Poi subentrò la ragione. Alzò una mano.

— Maledizione, maledizione, mi stai manovrando! Conosco i tuoi trucchi, me li hai insegnati. So quello che stai facendo, Duun!

— Ti sto offrendo la risposta. Ecco tutto. Cosa sei, da dove vieni…

— O dei, non voglio sentirla! - Thorn si voltò e si mise a correre. Poi chiuse la porta della sua stanza, e ci si appoggiò contro, tremando.

Si sentì l’intercom. — Quando vuoi, esci, Thorn. Non penso male di te. Non per questo. Anche un hatani può ricevere delle ferite. E questa è una grande ferita. Esci quando ti sentirai di vedermi. Ti aspetterò. Ti aspetterò, Thorn.

Aveva gli occhi asciutti quando uscì. Aprì la porta e percorse il corridoio fino alla sala. Duun era lì, seduto sul rialzo alla base della parete. Le finestre erano tutte stelle e buio: la notte. E forse era notte davvero. Duun non lo guardò subito, quando Thorn attraversò la sala e si sedette sul rialzo, al suo fianco.

Allora Duun girò la testa e lo guardò; non si sentiva alcun rumore, tranne qualcosa di meccanico dietro la finestra e un sussurro di aria dai condotti.

— Sei venuto per la risposta? — chiese Duun.

— Sì — disse Thorn. Sedeva con la schiena dritta, le mani sulle cosce e le caviglie incrociate. Guardava fisso Duun.

— Hai studiato genetica — continuò Duun. — Sai dunque cosa governa l’ereditarietà.

(Muoviti. Affonda in fretta il coltello, Duun. O dei, non voglio restarmene seduto a sentirlo.) — Sì. Capisco.

— Capisci che i geni ti rendono quello che sei; che ogni tuo tratto non è frutto del caso. Un insieme armonioso, Haras.

— Tu sei mio padre?

— No. Non hai padre. Né madre. Sei un esperimento. Una prova, se vuoi…

Thorn si sentiva stranamente insensibile. La voce di Duun era sospesa da qualche parte nella penombra senza tempo della finestra. La notte si stendeva all’infinito, e lui l’ascoltava.

— Non ci credo — disse Thorn alla fine. Non perché non credesse di essere qualcosa di altrettanto terribile. Ma non gli sembrava possibile — Duun. La verità. Sono nato sbagliato…

— Non sbagliato. Nessuno l’ha mai detto. Ci sono delle cose giuste in te. Ma sei diverso. Un esperimento. Tu sai come ha luogo il concepimento. Sai che è possibile la manipolazione genetica…

— Non so come. — (Clinicamente. E con precisione, come una lezione. Sembrava che non stessero parlando di lui, ma di una cosa in un piatto o di un granello di polvere sospeso in aria.) — So che viene fatto. So che si possono mettere insieme dei geni, e produrre qualcosa che non esisteva prima.

— Sai che quando qualcuno vuole dei figli, e ci sono… impedimenti fisici… esistono sistemi per fare crescere l’embrione. Un ospite. Qualche volta volontario. In altri casi un sistema artificiale. Un utero artificiale. Così è avvenuto nel tuo caso.

(Una macchina. O dei, una macchina.)

— Non c’è nulla di particolare in questo — disse Duun. — È una cosa che hai in comune con mille, duemila persone normali che non avrebbero potuto nascere in altra maniera. La medicina fa meraviglie.

— Mi hanno fabbricato.

— Qualcosa del genere.

Si era sforzato di non piangere. Ma non ce la fece più e le lacrime parvero sgorgare dal nulla, gli scesero lungo le guance, senza fermarsi. — Quando mi stavano mettendo insieme in questo laboratorio… — Non riuscì a parlare, per un certo tempo, e Duun attese. Poi ricominciò. — Quando mi hanno fabbricato, si sono preoccupati di farlo due volte? C’è qualcun altro come me?

— Nessuno al mondo — disse Duun. — No.

— Perché? Per amore degli dei, perché?

— Chiamala curiosità. Ci sono senza dubbio ragioni adeguate, per i medici.

— I medici…

— Sono loro i tuoi padri, se vuoi. In un certo senso, lo è anche Ellud. O altri che hanno lavorato al programma.

— E tu chi sei?

— Una soluzione hatani.

Piccoli campanelli d’allarme cominciarono a suonare. Un formicolio di avvertimento. (Auto-conservazione. Perché preoccuparsi? Perché pensarci?) Ma c’era la paura.

— Per chi?

— Avrei potuto fare molte cose, ma ho scelto di darti la migliore possibilità di cui disponevo. L’unica che possa dare. Come Ehonin e sua figlia.

— Chi te l’ha chiesta?

Duun rimase a lungo silenzioso.

— Il governo.

— Ha chiesto una soluzione hatani? - L’enormità della cosa gli piombò addosso come un’ondata. Lo sguardo di Duun non lo lasciò un attimo.

— Tu sei uno dei miei compiti principali. Ti ho dato tutto quello che potevo. Continuerò a farlo. È tutto quello che posso fare.

Le stelle brillavano, traboccanti.

— Volevo amarla, Duun.

— Lo so.

— Voglio morire.

— Ti ho insegnato a combattere. Non a morire. Ti sto insegnando a trovare soluzioni.

— Trova questa.

— Mi è già stato chiesto.

Thorn ebbe un brivido e tutto il suo corpo cominciò a tremare.

— Vieni qui — disse Duun. Gli tese le mani. — Vieni, pesciolino.

Thorn andò. Era una consolazione patetica quella che Duun gli offriva, vergognosa per entrambi. Duun lo prese fra le braccia e lo tenne stretto, fino a quando i brividi cessarono. Dopo, Thorn rimase appoggiato alla spalla di Duun per molto tempo, e con le braccia di Duun che lo cullarono come avevano fatto un tempo, davanti al fuoco, a Sheon, quando lui era piccolo.

Dormì. Quando si svegliò, vide che Duun si era addormentato sopra di lui; la schiena gli faceva male, ed era ancora tutto vero.

9

— Bene — disse Ellud — stiamo cercando di risalire il più lontano possibile con quei documenti. Quando i canali ufficiali decidono di falsificare qualcosa, ci riescono lasciando pochissime tracce.

— Non importa. — Duun teneva la schiena dritta. La costola incrinata e la notte passata steso su Thorn rendevano lenti i suoi movimenti. Sedeva a gambe incrociate sul rialzo nell’ufficio di Ellud, con una tazza d’infuso di erbe in mano. Si godeva il calore e la quiete. — Mi congratulo con il concilio. Le notizie fornite dal servizio di sicurezza, vere o false che siano, spiegano la maniera in cui si è comportata.

— Giovane, brillante, e probabilmente indebitata fino al collo con qualcuno.

— Prova la Compagnia Dallen. Segui la pista e fai tutto il baccano che ti pare. Dovrebbe servire a tenere Shbit tranquillo per un po’.

— Sono imbarazzato per quanto è successo.

— Gli è costata parecchio. Un sacco di anni per creare quell’identità. Quello che non riesco a capire è come sia riuscita a fuggire dall’edificio senza lasciare tracce. Accidenti, come hanno fatto a nasconderle?

— Stiamo cercando di scoprire anche questo.

Duun fissò Ellud un momento, e si versò un’altra tazza di tè. Sollevò la tazza e guardò di nuovo Ellud. La faccia di Duun non aveva nessuna espressione e i suoi occhi sembravano di vetro. — Sta diventando un uomo, a parte tutto il resto. Prima o poi doveva succedere. Betan era una soluzione, quando l’ho scelta. Intuivo che aveva il coraggio sufficiente per trattare con lui. L’ho sottovalutata. Thorn, gli dei lo sanno, è in grado di badare a se stesso… fino a un certo punto. Come minimo lei era intenzionata a provocare un incidente. È l’ipotesi più probabile. Ma non dimentichiamoci che se le cose fossero andate in un certo modo, l’avrebbe probabilmente anche ucciso. Il coraggio di farlo non le mancava. Peccato che la Corporazione non l’abbia presa.