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— Una libera hatani?

— Ci ho pensato. Non credo. Libera ghota, forse.

— Per gli dei, se pensavi una cosa simile…

— Il senno di poi. Può essere del medesimo vukun delle guardie del corpo di Shbit. Sono abili. Forse perfino una dei sicari della Compagnia Dallen. Certo ha combinato un pasticcio, se l’intenzione era di ucciderlo. Ma in fondo non era malvagia e io temo che la faccenda non sia poi — semplice. — Un altro sorso. — Non la troverai più, ormai, credo. Probabilmente è uscita dall’edificio. Cerca vecchi amici alla Sicurezza.

— Lo sto facendo.

— Probabilmente si è suicidata dopo aver fatto il suo rapporto. L’ho imbarazzata, e non nel suo giovanile pudore. Shbit penserà a far sparire il corpo. Francamente mi farebbe piacere se fosse andata da lui. Renderebbe molto più facili le soluzioni.

— A me questa faccenda non piace.

— Neanche a me. Può darsi che vada lo stesso da Shbit. Questa sconfitta dovrebbe tenerlo buono per un po’. Non può mettere in campo la sua testimone, adesso. È andato tutto all’aria: le accuse di assalto e violenza… — Duun respirò a fondo. Il disagio di Ellud era evidente. — Be’, è finita. Per il momento. Questa mattina l’ho messo al lavoro in palestra e mi sono rifiutato di rispondere alle sue domande. Poi gli ho dato un sedativo. In questo momento dorme, e c’è Hosi che lo sorveglia. Domani cambieremo la situazione a scuola. Penso che sia meglio. E grazie ai tuoi uomini. Mi piacerebbe tirarlo fuori, portarlo un po’ in campagna…

— Dei, no! Abbiamo appena avuto una falla nei sistemi di sicurezza. Vuoi che succeda di nuovo come a Sheon?

— … ma so che non è fattibile.

— Duun. Duun-hatani. — Ellud allungò una mano sulla scrivania, prese il foglio ottico e lo agitò. — Mi arrivano domande. Abbiamo una piccola falla che può provocare un maremoto, per l’amor del cielo, Duun! Non ci resta molto spazio di manovra. Voglio che il programma continui. Voglio che torni ai ritmi prestabiliti. Ti dico una cosa. Non c’è solo Shbit, adesso. Ci si sono messe anche le province. Riceviamo domande. Capisci?

— Ho sempre capito. C’è un limite, Ellud. La mente ha dei limiti. Voglio che Thorn sia tranquillo. Lo voglio in buona salute. È ormai a un buon punto. Ma bisogna lasciargli spazio.

— Non sa di Betan, vero?

— Come potrei spiegarglielo senza entrare nell’intera questione del concilio? È per questo che non ho potuto fermarla sul posto. Cosa avrei dovuto dirgli? C’è qualcuno che vuole ucciderti? Ci sono troppe cose che non capisce. Lascia che le ferite si rimarginino, prima che affronti il resto. — Duun guardò la tazza, la fece rotolare tra le due dita e la mise giù. — Prendi Sagot.

— Non può.

— Chiedilo a lei. No, le spiegherò io. È vecchia, astuta e femmina: la migliore combinazione possibile.

La guardia era ancora alla porta, la stessa di sempre, e Thorn si voltò per guardare quella che l’aveva scortato al piano superiore… non un’occhiata dura o vendicativa. (Lui ha avvisato Duun.) Dapprima Thorn aveva pensato a Cloen. Ma Thorn non aveva giocato d’astuzia. Non aveva pensato, in realtà, di coprire le sue tracce, né che fosse necessario.

Varcare quella porta, era tutto ciò che poteva fare. (“Betan se n’è andata”, gli aveva detto Duun il giorno prima. “È stata trasferita. Su sua richiesta.”) (“L’hai uccisa?” aveva chiesto Thorn, rabbrividendo una seconda volta. Non era una domanda razionale, forse; ma l’aria stessa gli sembrava fragile, piena di dubbi e d’inganni. Duun l’aveva allora guardato negli occhi, rispondendogli: “No. Niente del genere…”. Solennemente come Duun gli aveva sempre risposto e come gli aveva sempre detto le mezze verità, tenendolo lontano dal mondo fino a quanto Betan non ce l’aveva fatto entrare.)

(In che anno siamo?)

(Non avrei dovuto ridere. Sheon non è proprio la capitale del mondo, vero?)

Thorn entrò nell’anticamera, bianca di sabbia e di nude pareti; sul rialzo c’era un vaso solennemente ricolmo di ramoscelli d’albero. La sabbia mostrava i segni del rastrello, passato la sera prima e una singola fila d’impronte di piedi conduceva nella grande sala dove tutte le finestre erano bianche e nude.

La seguì e si fermò sulla soglia, di fronte ai rialzi scrivania, deserti. Le impronte conducevano alla scrivania più lontana, nella sala bianca, quella che era stata di Elanhen.

Uno sconosciuto sedeva lì, con le gambe incrociate e le mani sulle cosce. Il naso, la bocca e gli occhi erano bordati di bianco che sfumava nel grigio, tranne che sulla punta delle orecchie. La cresta era di un bianco candido. Le braccia magre. Thorn lo fissò pensando che doveva essere ammalato.

— Avvicinati. — Era una voce sottile, giusta per quel corpo. Thorn si avvicinò e rimase a guardare lo sconosciuto. — Tu sei Haras. Thorn.

(Dei, non lo sa?) Il riso era lì, pronto a sgorgare come sangue da una ferita, ma non poteva ridere in quel grande silenzio sterile. Era un uomo? D’improvviso Thorn sospettò di no, per delle ragioni che non avrebbe saputo ben definire. — Dov’è Elanhen? Dove sono Sphitti e Cloen?

— Mi chiamo Sagot. Perché mi fissi? C’è qualcosa in me che ti turba?

— Scusami. Dove sono gli altri?

— Sono andati via. Siediti. Siediti, Thorn.

Non sapeva come dire di no a una voce così gentile. Duun non gli aveva insegnato come dire no all’autorità. L’aveva imparato da solo; e il mondo era troppo pericoloso per opporsi avventatamente all’autorità. Si sedette sull’orlo del rialzo più vicino, con i piedi penzoloni.

— Mi chiamo Sagot. Non hai mai visto nessun vecchio fino ad ora, vero?

— No, Sagot. — Dire qualsiasi cosa gli sembrava difficile. (La vecchiaia. Dei, è così fragile… Dev’essere una donna, senz’altro. Diventerò anch’io così? E mi conosce… è un’amica di Duun.)

— D’ora in poi t’insegnerò io.

— E a loro no?

— No. Solo a te. Devo chiamarti Haras o Thorn? Cosa preferisci?

— Uno qualsiasi, Sagot. È lo stesso. — (Come devo chiamarla? È hatani? O un medico? Oh, Duun, fammi uscire di qui. Voglio i miei compagni. Perfino Cloen, se non Betan, almeno Sphitti! O Elanhen, o qualcuno che conosco!)

— Ho avuto due figli. Entrambi maschi. Sono cresciuti e hanno dei figli, e i loro figli hanno a loro volta dei figli, già grandi. È passato molto tempo da quando ho insegnato a un ragazzo. Mi è sempre piaciuto.

(O dei.) La gentilezza trovò una carne morbida e vi scivolò dentro come una lama; liberò le lacrime con tanta facilità che non ci fu modo di nasconderle. Thorn si coprì la faccia con le mani, svergognando se stesso e Duun, mentre il petto gli faceva male come se qualcosa si fosse spezzato dentro. Quando ebbe smesso di singhiozzare e di tremare, si fregò la faccia e il naso con le mani umide, e alzò gli occhi. L’educazione lo voleva.

— Sei un bravo giovane — disse Sagot. — Mi piaci.

— Menti, menti, è stato Duun a mandarti…

— È vero. Ma sei un bravo giovane lo stesso. Lo vedo. Posso vedere più di quanto immagini; ho educato troppi ragazzi per non averne trovato qualcuno che piangeva e mi confidava i suoi guai, ogni tanto; e anche ragazze… Ti dirò, ho conosciuto anche persone non più tanto giovani, che piangevano e tremavano per dispiaceri da loro considerati grandi. Simili tormenti sono come grandi bufere. Ti fanno bene. Investono le foreste e spezzano un po’ di rami. Ma segnalano i cambiamenti. Portano la nuova stagione. Rinnovano le cose. E questo è bene. I tuoi occhi sono luminosi… molto belli, anche se differenti. Sono azzurri, vero, quando non piangi?