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— Lasciami in pace!

— È sorprendente quanto i giovani siano uguali; prima piangono, poi gridano. Lo so che fa male. Mi sono morti due mariti. So qualcosa del dolore.

— Sei hatani?

Lei sorrise. — Dei, no. Ma conosco Duun. Sai, un hatani sa fare un sacco di cose, ma quando si tratta di avere a che fare con gli altri… be’: la ragione non risolve tutto. “Prenditi cura di lui”, mi ha detto. “Sagot, parla con lui, insegnagli.” “E perché dovrei farlo?” ho detto io. “Ho il mio lavoro, ho delle cose da fare, ho quattordici pro-nipoti. Non ho bisogno di un altro ragazzo.” Ma poi ho pensato: è passato tanto tempo. Sono tutti cresciuti. Ho centocinquantanove anni, ragazzo mio; e ho viaggiato per tutto il mondo, ho seguito il corso dei fiumi, sono stata ai due poli, ho scritto dei libri… alcuni dei libri che stai studiando, tra l’altro; ho avuto nove mariti, amanti che ho dimenticato e altri che non ho dimenticato; ho medicato giovani ginocchia, aggiustato ossa, messo al mondo bambini, e visto abbastanza di questo mondo da non essere sconvolta da niente. Questa è la verità.

— Forse è per questo che Duun ti ha mandato da me. - Con amarezza. Fra una chiacchiera e l’altra, il dolore che sentiva al petto, grazie a Sagot, era cessato, e lui non sentiva più il desiderio di scappare. Rimase seduto con i piedi penzoloni, le mani in grembo, e le lacrime che si asciugavano sulla faccia nuda. (Ma la pelle di Betan era come seta e aveva lo stesso sapore del profumo che emanava…)

— Credo che tu non pensi abbastanza a te stesso — disse Sagot. — Va bene essere hatani, ma non sei solo quello: come non sei soltanto un paio di occhi o un paio di mani o il sesso fra le gambe. — (Thorn arrossì). — Oh, lo so, lo so, ragazzo, l’hai scoperto solo adesso, e per un po’ sarà la cosa più importante per te; ma anche questo passerà, diventerà meno importante man mano che diventerai più cose e avrai più capacità, più pensieri; ogni cosa cambia e si trasforma, fino a quando il mondo diventa così grande e le cose che sei così complicate, che non riesci più a contenerle. Tu non sei solo Thorn, nato in un laboratorio, in fondo a questo corridoio; sei Thorn l’hatani, Thorn il mio studente, Thorn che andrà in giro, farà delle cose e sarà delle cose che non hai mai pensato, e io neppure e troverai delle risposte alle tue domande, e domande ancora senza risposta; di questo è fatta la vita, dopo tutto. Perciò piangi pure se devi farlo, e se vuoi venire da me ogni giorno a sfogarti, perché senti che ti fa bene, vieni pure. Ma quando avrai finito e sarai pronto, ho molte cose da darti. È un dare, sai, una specie di dono. Quando avrai vissuto tanti anni come me, vorrai sicuramente lasciare qualche cosa nel mondo. Questo è il mio insegnamento. Ed è quanto sto facendo.

Ritornò a sopraffarlo il singhiozzo, inaspettato, come un respiro improvviso. Ma gli fece meno male. Thorn si pulì la faccia con la mano, in un rapido gesto di disgusto. Si spostò più indietro sul rialzo e tirò su i piedi. Non c’era scelta. Sagot non gliene lasciava nessuna.

— Ti ascolto, Sagot. — (O dei, cos’ha da insegnarmi?) Sagot era piena di segreti e incuteva paura, come Duun. Difficile da affrontare, al pari di Duun, e altrettanto implacabile. — Sei sicura di non essere hatani?

Sagot rise gentilmente, con la sua fragile voce. — Lo prendo come un complimento. Cosa ti piace di più studiare?

— La fisica.

— La fisica, allora. Dimmi quello che conosci. Così saprò da dove cominciare.

— Se un oggetto viaggiasse alla velocità della luce, e un uomo viaggiasse su di esso fino alla stella più vicina… qual è questa stella?

— Goth.

— E dista…?

— Cinque anni luce.

— Cinque virgola uno. Ci vuole precisione, in questo caso. Supponiamo che questo uomo abbia quarant’anni, e che partendo, lasci sulla terra una sorella…

— C’è un tipo di parassita che infesta il cervello del bestiame, sul fiume Sgoht. Ricordo che una volta ho visto un…

— Sei stata là?

— Ragazzo, ho vissuto nove mesi sullo Sgoth, e un magistrato del villaggio era mio amante. Aveva un anello infilato qui, sul fianco del labbro, e gli dava un’aria strana quando sorrideva, te lo dico io. Era stato sposato sei volte, e aveva una cicatrice nel naso, dove una delle sue mogli gli aveva infilato un bastone; ma era matta, e la figlia lo era ancora di più. Si era messa in testa di vendere la terra di sua madre, senza possederla… voleva vendere la sua prospettiva di eredità all’uomo con cui viveva. Col denaro ricavato se ne sarebbe andata lungo il fiume a cercarsi un marito con una drogheria; non chiedermi perché, ma credo che il cibo fosse l’unica cosa a cui riusciva a pensare… Pesava infatti circa cento chili. Bene, il magistrato, il mio amante, alla fine le diede i soldi per andarsene, e quel matto con cui lei viveva andò a cercarlo con un’ascia…

— Per gli dei!

— Proprio così. E rincorse il magistrato in giro per l’ufficio e sulla strada finché qualcuno non gli sparò. Si diceva che la donna gli desse da mangiare la carne di animali malati e che, in questo modo, il parassita del bestiame l’avesse infettato; ma il mio amante magistrato diceva che chiunque sposava una donna come quella, era matto già da prima.

— Osserva lo schermo. È una simulazione. Questo è il quadro degli strumenti: c’è l’indicatore del carburante, dell’altezza, la bussola… ricordi il viaggio in città, vero?

— Certo che ricordo.

— Bene, questo non è un elicottero. È un aeroplano. Devi usare la cloche e i pulsanti. Ti faccio vedere. Questa è la pista. È un aereo di vecchio tipo, ma cominceremo con questo.

— Sei capace a pilotare?

— Oh, sì, una volta volavo. Adesso non ci vedo più tanto bene. Volo solo come passeggera.

— Passeggera?

— Caro ragazzo, gli aerei vanno e vengono per il mondo in continuazione; come credi che viaggi la gente?

— Per ferrovia.

— Oh, be’, quella serve quasi solo per le merci, oggi. Proviamo di nuovo a decollare; ho paura che siamo appena precipitati.

Qualche volta il dolore cessava. Thorn si svegliò una mattina e si rese conto che l’asprezza era passata; era giunto a una condizione di rimpianto, e non doveva faticare molto per mantenere l’autocontrollo; e mentre faceva colazione con Duun, un’altra mattina, provò un dolore diverso: perché lui e Duun avevano ormai poco da dirsi, fatta eccezione per qualche considerazione di ordine domestico, e per le parole scambiate in palestra. Non c’erano racconti nella sua vita se non quelli di Sagot, non c’erano suoni nella casa. Solo talvolta, nelle lunghe serate, lui o Duun suonavano il dkin, ma con scarsa passione: Duun senza scopo, oppure in lunghe e complesse composizioni che davano sui nervi a Thorn; Thorn suonava tristi canzoni hatani, oppure le canzonette più allegre e triviali che aveva imparato nell’infanzia, come accuse scagliate contro Duun. E Duun sedeva e ascoltava, oppure si ritirava nel suo studio in cerca di tranquillità e (qualche volta, perché il fianco gli faceva ancora male) prendeva un sedativo e chiudeva la porta della sua stanza.

Thorn era il pupillo di Sagot. Duun viveva con lui e basta; preparava da mangiare quando era il suo turno, e si occupava dell’addestramento ginnico di Thorn. (Da un po’ di tempo, Duun sentiva male a respirare; ma anche questo era poco importante.)