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Duun chiamò tempo. — Maledizione, è un acciaio troppo affilato per trattarlo in questa maniera! Non urtare il filo!

— Sì, Duun. — Thorn respirò grandi boccate d’aria. Il sudore gli colava negli occhi, e se l’asciugò.

— È la tua maledetta abitudine a usare una mano sola. Lo sai cosa hai fatto?

— Mi sono spostato a destra — disse Thorn. Abbassò le spalle e si asciugò di nuovo il sudore. — Ho fatto una finta a sinistra.

— Ma sei andato a destra, sciocco!

— Sì, Duun. Ho pensato che avresti pensato che questa volta sarei andato a sinistra.

— No, perché non lo fai mai! Dei, coglimi di sorpresa, almeno una volta!

La faccia di Thorn era mortificata.

— In guardia! — Duun colpì, veloce come un fulmine. Thorn sfuggì, sfuggì, e ancora sfuggì; poi attaccò e sfuggì di nuovo, con le lame che risuonavano.

Allora Duun fece un affondo, girò la lama e lo colpì col pugno sul braccio. Thorn buttò in alto il braccio per diminuire la forza del colpo, si ritirò e si copri di nuovo.

Duun chiamò tempo, e Thorn si guardò il braccio aspettandosi di vedere del sangue. — Almeno — disse Duun — non ti sei fermato quando ti ho colpito.

— No. — Questo l’aveva imparato in molte dolorose lezioni, perdendo le abitudini del principiante a forza di botte. — Mi dispiace. — Senza fiato, asciugandosi ancora una volta il sudore. Thorn si riferiva all’urto fra le lame.

— Hai sviluppato una nuova forma di finta: quella di nascondere i tuoi errori! Sei meglio quando sfuggi!

— Mi dispiace, Duun-hatani.

— Questo non è non combattimento con le mani: hai un artiglio maledettamente affilato, giovane sciocco! Usa il cervello. Ancora!

Thorn venne avanti. Duun sfuggì, colpì, sfuggì, colpì.

— Alt!

Thorn si tirò indietro e si fermò. Il respiro gli usciva a rantoli e il sudore gli colava negli occhi. Si raddrizzò. — Mi dispiace, Duun. — Era diventato un ritornello. C’erano sempre errori. Aveva un’espressione contrita.

Duun gli allungò una mano verso la faccia, lentamente. Thorn fece un passo indietro. C’era una minaccia in quell’atteggiamento, e cautela. Duun sorrise.

Thorn raddrizzò le spalle, ansimando. (Perché gridi? Perché mi lanci imprecazioni? Cosa non va oggi? Cerco di ascoltare, Duun, non prenderti gioco di me in questa maniera.)

— Lascia che ti tocchi, pesciolino. Una volta.

La mano con il coltello si abbassò. Thorn rimase immobile. Duun gli venne vicino e gli mise la mano in mezzo al petto, sulla pelle che era diventata pallida, senza la luce del sole, ed era scivolosa per il sudore. Il cuore batteva sotto la mano di Duun con colpi forti e regolari. Non si ritrasse. Non tremò. Duun alzò la mano fino al collo, e sentì lo stesso battito. Un piccolo scatto. Riflessi. O insegnamento. Guardò i bianchi occhi alieni: era curioso quanto poco il centro azzurro fosse cambiato dalla prima volta che li aveva guardati: un bambino nel suo grembo; un bambino con la pancia rotonda, che gli si arrampicava sulle ginocchia incrociate e cercava di tirargli le orecchie; la faccia di un ragazzo che lo guardava con improvvisa emozione, trovandoselo sulla pista…

Pareva che non avessero mai cambiato dimensioni. Le ossa attorno sì. La faccia si era incavata, la mascella allungata e la pelle era diventata ispida per i peli neri che Thorn si radeva sempre… (Rideranno di me, Duun; i peli del mio corpo non diventano fitti abbastanza, e non voglio che crescano in faccia in questa maniera, a chiazze.) Thorn si radeva anche il corpo, qui e là, dove le chiazze erano più evidenti. Si tagliava e si pettinava, in modo che i cambiamenti del suo corpo non sopraffacessero il Thorn a cui entrambi si erano abituati. Thorn aveva un odore diverso rispetto a un tempo. Il petto e le spalle erano più ampi e muscolosi, la pancia piatta e dura; i fianchi stretti, le gambe lunghe e agili. Era forte: Thorn poteva ora sollevare Duun, anche se lui non aveva nessuna intenzione di lasciarglielo fare.

Stranamente, Thorn non era brutto. Diciassette anni, quasi diciotto e Duun lo guardava dritto negli occhi, anzi, negli ultimi tempi doveva anche alzarli un po’. E c’era in Thorn una simmetria che gli rendeva la faccia giusta su quel corpo, le cui parti si componevano in una grazia di movimenti che nessun esteta avrebbe potuto negare. (“Quando ti ci abitui, è bellissimo” aveva detto Sagot. “Terribile, come un grande animale a cui ti sei avvicinato più di quanto avevi voluto. Ma desideri lo stesso vederlo muoversi. C’è un fascino in queste cose, no?”)

Le pupille si dilatavano e si contraevano a seconda dei pensieri. Con ansietà. (È un gioco, Duun? Devo fare qualcosa?)

Duun si allontanò, voltando le spalle a quello sguardo. Forse Thorn avvertì la sua ansia. Era acuta, adesso.

(“Dobbiamo procedere”, aveva insistito Ellud. “Duun, non hai fatto che rimandare; in un primo tempo c’erano i nastri da imparare; poi la faccenda di Betan che l’ha sconvolto; adesso tiri fuori che ci sono ancora delle cose da insegnargli. Duun, non abbiamo più scuse”).

Duun raccolse la custodia del wer e si voltò a guardare Thorn che stava facendo la stessa cosa. Tutto un guizzare di muscoli; sì, perché Thorn era in gran forma quella mattina; e Duun voleva ricordarlo così.

— Ecco le parole: so che puoi ricordarle. Non hai bisogno di molto studio. Nave. Sole. Mano. Attenzione. Equivalgono a queste sequenze sonore. — Sagot mise in funzione il registratore. Era una faccenda complicata, e Thorn si concentrò, per non disperdere la sua attenzione su ciò che lo circondava. Quella mattina la guardia non l’aveva condotto nella solita stanza, ma due porte più avanti, in un posto con i pavimenti lisci e nudi che sapevano di medici. La stanza era abbastanza grande, con due grandi rialzi e una serie di armadietti; con finestre che mostravano falsi deserti e che servivano a rendere il luogo ancora più nudo e meno confortevole. Sagot lo aspettava, seduta alla scrivania, a gambe incrociate e con una tastiera in grembo; vicino alle ginocchia aveva un’altra tastiera e un monitor. — Siediti — aveva detto, e la guardia era uscita chiudendo la porta.

— “Io. Egli Andare.”

Thorn aveva subito pensato al simulatore, quando la guardia l’aveva portato alla nuova porta. Gli piaceva quella rapida interazione col computer, la simulazione del volo e la terra che scivolava sotto ali immaginarie. Dei, c’era uno schermo in una stanza che faceva sembrare tutto vero. Si mise a sedere davanti a una macchina che aveva dei comandi molto simili a quelli dell’elicottero. L’intera macchina si muoveva sotto di lui e si inclinava insieme agli schermi; tanto che la prima volta aveva dovuto stringere i denti per non urlare, quando aveva perso il controllo e la stanza si era messa a girare su se stessa. Adesso se la cavava meglio.

(“Medici?” aveva chiesto subito a Sagot, allarmato. “Siediti”, aveva detto lei. “Oggi facciamo esercizi di pronuncia.”)

— Stop. Uomo. Radio. Stop.

— È un linguaggio?

— Ripeti, ragazzo.

(Qualcosa non va. La bocca di Sagot ha una piega dura. Ho fatto una domanda sbagliata? È infastidita per questo posto?)

— Concentrati.

Thorn si mise al lavoro. Associò un significato ai suoni. Sagot gli lasciò ascoltare i nastri più volte; lui li odiava. Poi borbottò i suoni, con risentimento. Non fu certo una bella giornata. Duun era stato scontroso a colazione; scontroso alla sua maniera, cioè silenzioso e pensieroso, nascondendo tutto quello che aveva dentro e mostrandone solo la superficie, come uno stagno ghiacciato. Sagot diede a Thorn ordini precisi, poi uscì. Lo lasciò solo nella stanza, ma ogni tanto tornava a controllare, da una porta interna.

(Si sono parlati. Duun è arrabbiato con me e l’ha detto a Sagot. Non ho fatto niente per fare arrabbiare Sagot.)