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Duun era in cucina quando entrò. Stava appoggiando la teiera sul rialzo. — Sobasi?

— Va bene. — Il forno a microonde era acceso. Appena si spense, Thorn ne tirò fuori i piatti e li appoggiò sul tavolo. (Facce. Facce. La stazione. Navi che andavano e venivano. Punti e simboli. Chimica. Il valore del pi greco. Numeri.) Thorn si sedette lasciando dondolare le gambe incrociate. Duun fece lo stesso, e si versò il tè. — Ne bevo troppo — disse. — Non mi fa dormire.

— Anch’io. Duun, possiamo parlarne… una volta?

Le orecchie di Duun erano piatte.

— Per favore, accidenti!

Duun gli porse la teiera, con espressione mite. — Una domanda. L’ascolterò. Solo una, Haras-hatani. Non devi farla ora, se vuoi pensarci. I pensieri affrettati non sono mai giusti.

Thorn prese la teiera, ricompose il viso e versò il tè. (Lo odio. Lo odio. Non ha nervi in corpo.) — Te lo dico io quando ti faccio la domanda; non voglio che tu prenda la prima che mi capita di fare, e dica che è quella. Hai un’amante?

(L’ho beccato.) Le orecchie di Duun guizzarono; gli occhi si dilatarono e si contrassero, — Era questo l’incubo?

— No. Sono soltanto curioso.

— Nessuna adesso. Ho avuto per un po’ una compagna. L’ho mandata via. — Duun si riempì la bocca e inghiottì.

— Perché?

(Un altro colpo. Non avevo pensato a questo.) — Mi voleva sposare e io no.

— Quanti anni hai?

— Pesciolino, quando abbiamo cominciato c’era in ballo una domanda. Cosa c’entra l’età?

— Ieri te la sei presa con me perché sto sempre sulla difensiva; attacca qualche volta, hai detto. Si può fare anche fuori dalla palestra. Sto attaccando. Pensi di essere vecchio?

Duun sogghignò. — Fra poco ti spingerai troppo in là, Haras-hatani, e io porrò fine al gioco. Pensi che io sia vecchio?

— Qual è stata la tua soluzione per il governo?

— Farti hatani. È quello che ho fatto.

— Perché non volevi che imparassi com’è il mondo?

— Adesso l’hai imparato, no? — Duun alzò le spalle. (Dei, neanche un tremito.) — In effetti, abbiamo parlato troppo di Sheon e troppo poco del mondo. Quando siamo venuti qui, con due anni d’anticipo rispetto ai miei piani, dovresti ricordare — (contrattacco e affondo) — tu eri piuttosto scosso, e sapevi anche troppo di essere diverso. — (Colpito ancora. Dei, non ha pietà!) — Cosa devo fare? Buttarti addosso il mondo in un solo giorno? Ascolta, pesciolino, avevo un problema da risolvere: allevare un ragazzo senza televisione, senza fotografie delle città e senza alcun indizio di come fosse la vita fuori da Sheon, perché qualsiasi immagine ti avrebbe mostrato che tutta la gente è come me, e nessuno come te. Dovevo educarti senza educarti, non so se mi spiego, perché non volevo che soffrissi per la tua differenza. Volevo darti un’infanzia, e ti ho dato la migliore che conoscevo: ti ho dato la mia.

(Sta lavorando su di me. Dice la verità. Qual era l’esperimento? Non hanno ancora finito.) Thorn sentì il sudore raccogliersi fra le pieghe dietro il ginocchio e sotto le ascelle.

— Devi ammettere — disse Duun — che negli ultimi due anni ti sono state versate nella testa un sacco di cose, un sacco di fatti. Sei andato dal passato al presente. Ti dico una cosa: quando ho cominciato non sapevo quale poteva essere la tua capacità intellettuale, se era normale, oppure no. Non sapevo se avrei potuto fare quello che avevo in mente. Dovevo saperlo prima di permettere a qualcun altro di mettere le mani su di te… Se potevi essere hatani. Ricordati della figlia di Ehonin.

— Perché è importante che io sia hatani?

— È questa la tua domanda?

— Ti ho detto che ti avrei avvisato quando fosse stata la mia domanda.

— Bene, risponderò a questo un giorno o l’altro.

— Questa è la mia domanda: perché le cose che mi fanno vedere hanno la stazione, e la stazione è piena di gente come me?

— Sono due domande.

— È una sola. Un hatani dovrebbe vederne l’unità.

— Bene, la considererò una sola. La stazione è piena di gente normale, e io ti ho detto la verità: sei unico. Probabilmente i test ti fanno sognare in una strana maniera: ci sono delle implicazioni psicologiche che senz’altro interessano i medici.

— L’esperimento continua, vero? — (Dei, mi ha distorto un’altra volta. Tutto. Tutto è un’illusione, come le finestre.) — Non è così, Duun?

— Questa è un’altra domanda. Ti ho detto che non volevo parlarne qui dentro; pensavo che ti avrebbe fatto piacere avere un posto dove la gente non ti fa a pezzi il cervello, e gioca con quello che conosci.

— Dei, dimmi dov’è questo posto!

Duun sorrise, o forse era la cicatrice. — Mangia. Mi hai svegliato. Tanto vale che ti mangi la colazione che ho preparato.

— È una lingua, Sagot. Perché non me lo dicono e basta?

— Taci. Non posso parlarne.

— Cosa mi stanno facendo?

— Thorn, non posso discuterne in nessun modo. Per favore.

— Mi sento male quando esco di là. Mi sento come se mi avessero rivoltato dentro. Vedo cose nel sonno. Ho fatto cambiare le finestre. Prima c’erano le stelle. Mi svegliavo e non sapevo dov’ero, e mi sembrava di cadere, come a volte accade nei sogni, ma molto peggio. Adesso ci sono boschi, e qualche volta i boschi di Sheon con la pioggia. Non posso dormire senza. Vorrei che cambiassero quell’orribile deserto nel laboratorio.

— Vorrebbe essere distensivo.

— C’è troppo cielo. È morto. Mi sogno di un posto come quello, e non mi piace.

— Gli chiederò di cambiarlo. Sono sicura che lo faranno. Cercano davvero di essere gentili con te, lo sai.

— Mi odiano.

— Ragazzo, sono dei professionisti. Devono essere freddi. Le loro menti sono concentrate su quello che devono fare, e sono come tutti i professionisti: trattano la gente come se schiacciassero dei bottoni, e si aspettano che le cose funzionino nella maniera giusta. Si dimenticano che c’è una persona attaccata a quella gamba e a quel braccio, perché nella loro mente la vedono a un livello differente, per esempio come vene e nervi. A quel livello, il tuo corpo è solo una mappa con dei sentieri; e loro li seguono senza pensare che da qualche parte di quel sistema c’è un cranio con un cervello dentro e un giovane molto ansioso che vive lì dentro e osserva e ascolta quello che si dicono tra loro.

(Sagot, stai distraendo la mia attenzione. Conosco il trucco. Sono un ragazzo tra due adulti esperti, che mi tengono costantemente in sospeso. Mi stanco di combattere contro la bufera. Voglio solo lasciarmi andare e finirla, qualche volta.)

— Sto pensando di uccidermi.

Panico. Sagot lo guardò turbata. Thorn fece una smorfia, sentendo un dolore dentro.

— Stavo scherzando. Sei molto brava a cambiare argomento. Ho pensato di farlo anch’io.

— Non scherzare su una cosa del genere, ragazzo. Ho avuto un marito che l’ha fatto. Penso che non ci sia niente di divertente.

— Non parlarmi dei tuoi mariti! Ci stai provando un’altra volta. Non ti ascolterò! — Scese di scatto dal rialzo e uscì dalla stanza. Sagot rimase immobile, in silenzio. Thorn arrivò fino alla porta d’ingresso, nella stanza con il vaso e i ramoscelli: la porta era chiusa. Schiacciò il pulsante. Batté i pugni sulla porta. — Aprite! Voglio uscire!

Non c’era possibilità di fuga. Alla fine dovette tornare indietro (come Sagot si aspettava). Ma si sedette sul rialzo più lontano, accavallò le gambe e si studiò le vene delle mani e delle caviglie, che erano gonfie per l’ira. Mappe. Sentieri. Il marito di Sagot probabilmente si era suicidato davvero, non se lo stava inventando. Se ne stava seduta di fronte a quel ragazzo maleducato, ingrato e scontroso; che l’aveva colpita in maniera hatani. Aveva colpito Cloen. Aveva colpito Sagot. Entrambe le volte aveva pervertito ciò che gli era stato insegnato.