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— Andiamo all’aeroporto — gli disse Duun, gridandogli nelle orecchie — C’è un aeroplano che ci aspetta.

Thorn lo guardò, con le domande dipinte sul volto. Implorante.

— Andiamo ad Avenen — gridò Duun. — Il quartiere generale della Corporazione. Sarà meglio che ti abitui all’idea durante il viaggio. Ci verranno tutti gli hatani che riusciranno a radunare, e tu dovrai farlo, questa volta o mai più. Non ci sarà una seconda occasione.

— Per cosa?

— Per avere la protezione della Corporazione.

Corsero dall’elicottero fino a un edificio dove si tolsero i vestiti imbottiti e indossarono delle tute aderenti. Degli attendenti, impersonali quanto i medici, gli strinsero le allacciature, due alla volta, con fretta brutale; poi gli sistemarono le maschere, che penzolavano dal collo, e i caschi con dentro un microfono. — Corri — disse Duun, chinandosi a raccogliere i bagagli, e corsero fuori dalla porta che gli attendenti tenevano aperta per loro. Si ritrovarono in un hangar pieno di rumore, aperto alle due estremità, dov’era in attesa un aereo con le eliche che giravano al minimo: una macchina con il muso che si abbassava, e ali tozze, rivolte all’indietro. — Questo ha bisogno di una pista per decollare — gridò Duun. — Dovremo uscire da qui… gira dietro alle ali, c’è una scaletta.

C’era, appoggiata all’aereo. La calotta era alzata. Duun gettò il bagaglio a una guardia e si arrampicò sulla scaletta; e Thorn gli tenne dietro, ostacolato dalla tuta che gli impediva i movimenti. Ansimando e strisciando sul fianco dell’aereo, raggiunsero il piano alare. C’era un posto per il pilota, uno per il secondo pilota, e altri due posti dietro, in una cabina che sembrava grande appena per i due posti davanti. Duun passò sopra una delle poltroncine e si sedette sulla seconda, afferrò delle complicate cinture di sicurezza e se le legò. Thorn si infilò in quella a fianco; le cinture erano simili a quelle del simulatore. L’attacco per il tubo della maschera era fra le gambe: Duun glielo mostrò e lo inserì. — Comando per le comunicazioni — la voce di Duun gli arrivò dalla cuffia e il viso di Duun, dentro al casco e dietro la maschera con l’interruttore a tre posizioni e il pulsante sul fianco in bella evidenza, gli apparve irriconoscibile: sembrava la testa di un insetto. La calotta scivolò in avanti, con un sibilo di comandi idraulici. Il pilota girò la testa e fece un segno con la mano a Duun, che rispose con un altro segno. Il pilota si voltò, e il suo secondo spinse i motori al massimo: le turbine girarono più in fretta e l’aereo cominciò a rollare sempre più veloce, fuori dell’hangar, sotto il cielo coperto, con il carrello che sobbalzava sulla pavimentazione irregolare, e il paesaggio di Dsonan, alla loro sinistra, irreale come la vista da una finestra.

Più veloce: uscirono su una lunga distesa di cemento, e il sibilo del motore si fece più forte. L’accelerazione li schiacciò contro gli schienali, mentre l’aereo compiva la sua corsa e si sollevava rombando sopra il fiume. Eseguì poi una brusca virata, mostrando per un lungo vertiginoso momento il corso d’acqua, finché il pilota non decise di raddrizzarlo, puntando verso l’alto.

— Dei — disse Thorn. Il cuore gli batteva forte, mentre le nuvole sfrecciavano accanto a loro, e ancora l’aereo saliva. (Perché così in fretta? Perché così all’improvviso? Cosa ha in mente Duun?) — A che velocità arriva questo aereo?

— Più di mach due, se necessario. È un aereo corriere… armato, se vuoi saperlo. E nel caso tu voglia sapere qualcos’altro: sì, c’è una ragione. Ci sono problemi a terra che mi preoccupano. Non mi aspetto guai veri e propri, ma c’è la remota possibilità di guai anche quassù. C’è un’unità ghota nella provincia di Hoguni che ha uno di questi, e non so da chi prenda gli ordini.

— Ghota? Non sono guardie?

— Assoldate. Una corporazione di guerrieri. I kosan e i ghota. I nostri amici qui davanti a noi sono kosanin; assumono un servizio a vita. Invece i ghotanin si affittano; non fidarti mai di loro, finché non sai quanto dura il loro contratto e se sei il solo a pagarli. Sono come le mogli annuali; sempre alla ricerca del migliore offerente. I kosanin non militano con loro. È per questo che sono in unità separate.

— Duun-hatani, forse non so abbastanza!

— Qualsiasi cosa tu faccia, non mentire e non tirarti indietro. Nessuno conosce mai abbastanza. È tutto quello che posso dirti ora. Due regole. E una terza: ricordati di Sheon. Ricorda il pugnale sul tuo cuscino. Ricorda il gioco della pietra. E sii sempre cortese.

Arrivarono stridendo su una pista che si spingeva nel mare, frenarono con grande sforzo e girarono bruscamente verso un gruppo di edifici e di aerei, di tutte le dimensioni, per lo più piccoli.

E nessuno affusolato come il loro. — Bene — disse Duun — nessuno è arrivato prima di noi; ci sono soltanto i locali e i visitatori occasionali.

Thorn si guardò intorno. Sulla maggior parte degli apparecchi erano dipinte le insegne. Alcune a strisce, ma la maggior parte erano bianche. Un elicottero li attendeva, con le eliche che giravano.

— È il nostro?

— Speriamo di sì. — La mano di Duun strinse la sua, dolorosamente.

— Ascoltami. Da ora in poi non ci devono essere errori, Haras-hatani.

Un edificio massiccio si stendeva oltre l’aeroporto. L’avevano visto fin dal momento in cui si erano avvicinati: largo e basso, diverso da tutti gli altri edifici che Thorn aveva visto. Pietra grigia. Grigio hatani. Il quartier generale della Corporazione.

Avenen.

L’aereo si fermò e arrivò subito un veicolo che alzò una scaletta verso l’alto. La calotta scivolò indietro, facendo entrare un vento freddo.

Duun tirò fuori i bagagli e li diede a un attendente, poi, in fretta e furia, scese a terra seguito da Thorn. (Pensa, pensa, osserva questi attendenti, osserva ogni cosa.)

(È una specie di test? Duun ha mentito? Ci sono davvero dei ghotanin sulle nostre tracce, e potrebbero venire fin qui?)

Duun riprese il fagotto dei loro averi e corse verso l’elicottero. Thorn corse dietro di lui, con la maschera che gli sbatteva sul petto, e la tuta che gli impediva i movimenti. (Osserva questa gente. Osservali tutti, osserva le loro mani.)

Un paio di scalini e furono dentro l’elicottero, con il pilota già al suo posto. (Il naso di Duun è migliore del mio. Sentirebbe odore di paura, se quello avesse in mente qualcosa contro di noi, anche in mezzo alla puzza di carburante.) Thorn si sedette a fianco di Duun, e si allacciò la cintura mentre l’elicottero decollava, girava e si sollevava inclinandosi; il terreno scorreva veloce sotto di loro, in una surreale intimità dopo l’altezza abbagliante dell’aereo corriere. C’era solo l’illusione della velocità. Ci vollero parecchi minuti per arrivare alle mura grigie, su edifici che sembravano costruiti da una decina di architetti litigiosi che si erano cambiati a vicenda i progetti.

Uno spazio circolare per l’atterraggio, su un tetto, venne verso di loro. C’erano degli uomini ad attenderli; indossavano dei mantelli grigi e guardavano, immobili, l’elicottero che atterrava.

— Possiamo fidarci di loro — disse Duun. — Una cosa è certa: nessun ghota oserebbe portare quel colore lì. — I motori rallentarono. Duun porse a Thorn il bagaglio, e scese.

Thorn saltò a terra e seguì Duun oltre il cerchio dell’elica. L’elicottero si alzò rombando, sferzandoli di polvere e facendo sbattere i mantelli grigi.

Duun si tolse il casco e se lo mise sotto il braccio. Nonostante l’impiccio del fagotto, anche Thorn riuscì a togliersi il suo, e il vento gli sferzò i capelli, freddo e spietato. Thorn guardò i cinque che li stavano aspettando: uomini aitanti, e uno che gli pareva una donna, tutti coi mantelli grigi e kilt neri. Lui e Duun invece, erano in completo disordine con le maschere e i tubi penzoloni, come due macchine animate che hanno appena smesso di funzionare. Guardarono Duun e lui… per primo lui, che non aveva eguali, i capelli al vento e la faccia liscia, in tutta la sua estraneità. Thorn non riuscì a intuire cosa pensassero e questo, più di qualsiasi altra cosa, lo convinse di dov’era. Nessuno oltre a Duun erariuscito ad apparirgli così impenetrabile, fino a quel momento.