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— Ira da parte del mio studente verso di me. Ha detto: “Avresti fatto meglio ad arrivare fra un po’”. La donna non ha detto niente. Più tardi il mio studente ha detto: “Volevo amarla”. E io gli ho spiegato che le differenze fisiche le avrebbero fatto del male.

— Lui questo lo sapeva?

— Poteva non rendersene conto.

— Tu sapevi?

— No. Sì. — Thorn si sforzò di riacquistare la padronanza di sé.

— L’ho spinta indietro, maestro Tangan. Emanava odore di paura, e io l’ho spinta indietro.

— Lontano da te.

— Mente — disse Betan. — È hatani, e mente con viso sincero.

— Cosa chiedi per lui?

— Rimandatelo a Dsonan. Non lasciatelo entrare nella Corporazione.

— Che cosa chiedi da lei, visitatore?

— Penso che sia una trappola — disse Thorn. — Penso che si tratti di un’altra prova, e che lei sia hatani.

— Perché dici questo?

— Si muove come un’hatani.

— Ti sbagli, giovane uomo. Non è hatani, né libera né della Corporazione.

— È ghota — disse Duun. — O io sono cieco. Ed è stata pazza a venire qui.

Betan rimase immobile. (Ghota?) Thorn la fissò. Si era aspettato uomini con pistole. (Betan? Ghota?)

— Questo è il mio giudizio — disse Tangan. — Lascia questa casa. Non inizierò una guerra fra corporazioni. Hai mezz’ora per raggiungere l’aeroporto. Prendi seriamente il mio avvertimento.

Betan si girò e camminò, cautamente, lungo il sentiero, oltre gli hatani sui massi, e su per i gradini all’estremità della sala. Thorn tremava, ma era il freddo; erano le bruciature. Dov’era stata Betan, dov’era stata una parte della sua giovinezza, c’era un vuoto freddo.

— Un’altra domanda.

— Maestro? — Thorn si voltò e guardò il vecchio sulla roccia.

— Qual è la cosa che hai fatto oggi di cui ti senti più orgoglioso?

Thorn sbatté le palpebre. Questo lo tradì, e si sentì umiliato, ma gli occhi gli bruciavano, e le ginocchia gli tremavano. — Avere portato qui il mantello di Duun.

Ci furono risate in tutta la sala, pungenti, rauche, dure.

— È un trucco dei novizi — spiegò Tangan. La sua faccia si rilassò e divenne gentile. — I novizi che crescono nella Corporazione non ci cascano mai, tranne il primo giorno, quando arrivano. Ma a te non era stato detto. E tu onori il tuo maestro. Ridono perché hai trovato quattro pietre, oltre all’acqua e al cibo. Questo è molto raro. Io ti rimprovero di aver versato l’acqua. Ma ti sei rifatto sudando intorno al fuoco. Quelle bruciature diventeranno cicatrici, giovane. E penso che dovresti fartele medicare, prima che ti rimandiamo indietro.

(Ho perso, dunque.)

— Sarai apprendista di Duun no Lughn fino a quando gli parrà opportuno. Da quel momento, farai come parrà opportuno a te. Hai la saggezza di trattenerti dal giudicare quando ti manca la conoscenza. Questo è molto importante. Sii gentile. Sii pietoso. Dai giudizi sinceri. Tutte le altre regole della Corporazione scaturiscono da queste tre. Un libero hatani giudica, e la Corporazione non si intromette. Quando giudicherai tu, la Corporazione sarà disposta a versare il sangue per sostenerti. Ricorda sempre questo, Haras-hatani.

— Sì, maestro Tangan. — E per un momento la faccia del maestro gli permise di vedere oltre un’altra barriera. (È un uomo preoccupato. Gli hatani lassù lo vedono, e per la sorpresa, si sono messi a ridere. C’è rabbia in questa sala.) Posò lo sguardo su Duun, e vide l’altra metà di quell’espressione. (Sanno qualcosa. No. Duun sa, e Tangan l’ha scoperto.)

— Accompagnalo a medicare quelle bruciature, Duun-hatani.

13

— Prendetevi cura di lui — disse Duun lasciandolo. Erano medici hatani, che presero i vestiti di Thorn, e lo fecero mettere in piedi su una grata di plastica, con le mani appoggiate su due tavoli ai suoi fianchi, per medicarle. Altri due medici lo lavarono con acqua e sapone a partire dai capelli: dell’acqua grigia, sporca di sabbia e carbone, gli scendeva lungo il corpo, e spariva nella grata bianca. Il ginocchio gli bruciava e doleva, ma il loro tocco rapido era delicato. I medici gli lavarono anche le mani, con maggiore attenzione. — Sentirai freddo — disse uno. Thorn sentì un odore pungente, di qualcosa che faceva senz’altro male; e una scossa che al momento parve arrivare fino all’osso, gli colpì la mano destra quando i medici ci spruzzarono sopra quel liquido chiaro, dall’odore intenso. Ma ne seguì l’insensibilità, o la cessazione del dolore. Fu un cambiamento così brusco, che solo allora Thorn si accorse di quanto dolore aveva sopportato. Continuarono a lavarlo, e passarono all’altra mano. La destra, l’immersero in qualcosa di gelatinoso; poi in qualcos’altro, che s’indurì in una pellicola lucida, mentre uno gli asciugava i capelli, e un altro gli medicava il ginocchio e lo bendava. Il loro tocco era gentile. Così i loro modi. — Potrei bere, per favore? — chiese Thorn, intendendo, se non era per loro un disturbo, dal tubo dell’acqua che adoperavano per lavarlo. Si era inumidito le labbra quando gli avevano asciugato i capelli, ma aveva ancora sete. Quello che gli stava asciugando i capelli si allontanò e gli portò una tazza d’acqua; poi gliela tenne mentre lui beveva, impossibilitato ad usare le mani su cui stavano lavorando. Thorn guardò l’uomo negli occhi e vi scorse solo gentilezza.

— Dovresti andare a letto — disse il medico che gli stava medicando la destra — ma dicono che non puoi. Ecco, è fatto. Tieni il gomito piegato il più possibile, non chiudere la mano e non adoperarla fino a quando la gelatina non si stacca, ricordati.

Anche quello che lavorava sulla sinistra aveva finito, e lo prese per il gomito, facendolo spostare dalla grata. Un altro portò una tuta e un casco, i suoi, pensò Thorn confusamente, perché aveva un auricolare bruciacchiato. Gliela fecero indossare con la stessa efficienza che avevano mostrato nel curargli le ferite.

(Allora torniamo.) I medici di Dsonan l’avrebbero preso e fatto stendere sul tavolo, mormorando cose oscure mentre ficcavano il naso in quello che avevano fatto questi medici. E gli avrebbero fatto male.

Ci sarebbero stati ancora i nastri. Niente sarebbe cambiato. Thorn rabbrividì, mentre gli allacciavano la tuta, e uno dei medici gli sentì il polso carotideo. — Vai subito a letto quando sarai a casa — disse. — Non possiamo dargli niente — sottolineò un altro, con aria preoccupata e con gentilezza, tutto al contrario dei medici di Dsonan. — Troppo rischioso. Speriamo che non reagisca alla gelatina. — Lo guardò e gli diede una pacca sulle spalle. — Ti senti male allo stomaco?

— No. Non molto.

Continuarono ad allacciargli le cerniere e le fibbie della tuta. — Accidenti, non può mettersi il casco.

(Perché tanta fretta? Cosa non va? Perché sono preoccupati? Ghotanin? Hanno lasciato andare Betan. È andata all’aeroporto? È andata?) Il pensiero che Betan potesse morire gli dava dolore. (Anche se è mia nemica. È stata coraggiosa a venire qui.)

— Ecco. — Un ultimo strattone. — Così è a posto. Tieni il casco sotto il braccio, non usare le mani. Chiamate Duun, qualcuno.

— È fuori.

— Grazie — disse Thorn, guardandoli. Era sincero. Uno di loro aprì la porta e chiamò Duun. Anche Duun indossava la tuta, e aveva sulla spalla una borsa di tela grigia, con cinghie nere, e il casco sottobraccio.

— Ce la può fare, vero? — chiese Duun.

— Prenditi cura di lui — disse un medico. E a Thorn: — Tieni il braccio piegato, capito? Addio.

Era tutto, dunque. Duun, in piedi presso la porta, guardò i medici come per ringraziarli, e fece uscire Thorn sul corridoio. Degli hatani andavano e venivano, nessuno con il mantello grigio, adesso. La maggior parte pareva avere mille cose per la testa, e alcuni erano di fretta. Passando, molti guardarono lui e Duun.