Выбрать главу

— Lo ami? — chiese Duun. — Lo ami, pesciolino?

— Sì — disse Thorn, quando gli riuscì di dire qualcosa… Si asciugò di nuovo gli occhi. — È ancora lì.

— Finché tu non ci sei sopra — disse Duun, ed era la verità; l’aveva visto. Thorn sentì un dolore al petto. Allungò una mano, e toccò il finestrino e il mondo.

La nave lasciò il mondo, mentre si allacciavano le cinture di sicurezza. I motori li schiacciarono duramente e a lungo.

Thorn chiuse gli occhi. Non riesco a dormire, non riesco mai a dormire, si disse. Le forze lo abbandonarono, e il dolore gli ricordò chi era e cosa gli costava, costantemente, come i battiti del cuore. — Bevi — disse Duun allungandogli una cannuccia. Ma dopo il primo sorso, Thorn non voleva più saperne. — Bevi. — Ancora, con quella voce che l’aveva spinto tutta la vita, e non gli lasciava scelta. Thorn bevve, e si addormentò. Quando si svegliò, Duun gli dormiva accanto, con il fianco non ferito verso di lui; quel fianco che forniva l’illusione di come Duun era stato una volta.

Thorn chiuse gli occhi. (Sagot è viva? Manan e l’altro pilota sono vivi? La Corporazione… i missili l’hanno difesa?)

(Bambini in piedi sulla roccia, a Sheon, che guardano soli rossi sbocciati sull’orizzonte. Il fumo ricopre il cielo. Il tuono scuote la terra.)

(Nei corridoi di Dsonan la gente corre senza sapere dove andare.)

Il sole gira dietro la calotta e gli uomini, simili a grandi insetti, manovrano i comandi. L’aereo è sospeso nel cielo e il tempo si ferma. La guerra prosegue in un momento raggelato per sempre, tutta la guerra, tutto il tempo.

Sagot siede nella sua stanza, da sola. C’è un tuono dopo l’altro. Siede fragile e solenne in fondo a quella stanza, aspettando, di fronte alle scrivanie vuote.

Un traghetto vola nello spazio, e l’universo gli corre incontro portando il mondo lontano.

C’erano le cose del mondo. Dovevano esserci. In primo luogo le necessità corporali, e Thorn si prendeva ostinatamente cura di se stesso, dopo che Duun gli ebbe mostrato come funzionavano le cose lì dentro. C’era, per esempio, una specie di colazione, e Thorn scoprì che le mani gli facevano un po’ meno male. L’equipaggio passava attraverso il loro compartimento, spinto da analoghe necessità, dando vita a un certo viavai. C’era inoltre qualcosa di surreale nel loro fluttuare nell’aria, nei loro movimenti lenti, come in un sogno.

— Dove stiamo andando, Duun.

— A Gatog.

— È la stazione? — Thorn non aveva mai sentito chiamarla cosi.

— Una delle stazioni.

(Ne esiste più d’una?) Gli insegnamenti di Sagot manifestarono delle crepe, si frantumarono in dubbi. (Non c’è verità assoluta?)

— Abbiamo ricevuto un rapporto — disse Duun — secondo cui i ghotanin hanno mandato un messaggero da Tangan, offrendo di negoziare. La Corporazione kosan inizialmente ha rifiutato, ma dovrà ammorbidire la sua posizione.

— Fa parte della tua soluzione? — chiese Thorn. La sua mente aveva ricominciato a lavorare. Duun lo squadrò con un penetrante sguardo hatani, simile a quello che gli aveva appena rivolto Thorn.

— L’equilibrio è la mia soluzione — rispose Duun. — Non è mai stata mia intenzione distruggere i ghotanin.

— Ti chiamano sey Duun.

— È una formula di cortesia dei nostri giorni.

— Hai guidato i kosanin?

— Una volta.

Nient’altro. Duun non aveva intenzione di dire più di quanto voleva.

Ancora sonno, pasti, corpi, mentre la gelatina aveva cominciato a staccarglisi dalle mani. Cominciò a conoscere l’equipaggio: Ghindi, Spart, Mogannen, Weig. Mezzi nomi. Soprannomi. Ma bastavano. Duun li conosceva, e parlava con loro con voce tranquilla; talvolta parlava invece alla radio, con voci provenienti da un capo o dall’altro del loro viaggio.

Nessuna di queste cose riguardava Thorn. E tutte lo riguardavano. Ascoltò, con un’angoscia mortale, e non capì altro che nomi di città, quello di Gatog, e termini specialistici.

Intercettazione, sentì una volta, e il suo cuore sussultò. Guardò Duun, e continuò a guardarlo anche dopo che la conversazione radio era terminata.

— Pesciolino — gli disse Duun, volando verso di lui. E gli fece cenno di seguirlo.

Duun si diresse alla cabina dove dormivano e si fermò con un movimento elegante. Arrivando dietro a lui, Thorn allungò un piede e la mano mezza guarita, e si arrestò quasi altrettanto bene. — Ci sono dei ghotanin, qui? — chiese Thorn.

— Forse ci sono — rispose Duun. — Non è nostro compito combatterli.

— È un gioco? — chiese Thorn irritato. — Devo scoprire cosa faremo? Dove sono? È finita, Duun?

Duun lo guardò in maniera strana, con distacco. — È appena cominciata. Non è questa la domanda giusta, Haras-hatani. Nessuna di queste è la domanda giusta.

Thorn si calmò.

— Pensaci — disse Duun. — Dimmi quando lo saprai.

Il vuoto dentro cui correvano si ridusse a una dimensione familiare (“Ancora”, disse Duun, in piedi sopra di lui, sulla sabbia, “Ancora.”)

Thorn respirò profondamente e guardò Duun che scivolava attraverso il portello illuminato, come un grigio pesce di dimensione umana.

(Mi aspettava. Dov’ero? Dov’era la mia mente? Era commiserazione quella che provava per me.)

(Lui è di casa qui. È il suo elemento, come Sheon. La torre in città, e la sala della Corporazione non lo sono mai state.)

Thorn spinse coi piedi, stendendo il corpo come aveva fatto Duun, con la stessa grazia. Sbucò nella luce del compartimento superiore, trovò con sicurezza un appoggio, e rimbalzò fino al punto di ancoraggio che cercava, da dove poteva vedere Duun e gli altri.

Stavano ricevendo e mandando messaggi. Duun ascoltò e rispose, in quel gergo incomprensibile. — È normale — chiese Thorn quando ci fu una pausa — parlare in questo modo, o è perché abbiamo dei nemici?

— È questa la tua domanda? — chiese Duun.

— Te lo dirò quando vorrò farla. — Thorn si teneva aggrappato a un bancone, e sentiva le bruciature fargli ancora un po’ male. — Se questo è un oceano, questo pesciolino dovrà imparare a nuotare. Avrebbe dovuto imparare giorni fa.

Duun lo guardò, piegando indietro le orecchie in un’espressione che Thorn gli aveva visto migliaia di volte. — Ci sono nemici. Gli stessi che abbiamo incontrato sulla terra. Le compagnie che hanno miniere e fabbriche quassù, usano ghotanin come guardie. E alcune hanno navi. Non come il traghetto, che non è costruito per quello che stiamo facendo. Queste navi si stanno muovendo, alcune amiche, altre nemiche. Abbiamo bruciato tutto il carburante che avevamo per staccarci dal campo gravitazionale terrestre. Non era un lancio in programma. Abbiamo usato la navetta di riserva: ce n’è sempre una pronta al lancio. Le compagnie vogliono che vengano rispettati i tempi. E averla pronta senza che Shbit e i ghotanin potessero risalire a me… non è stato facile.

(Allora sapevi tutto in anticipo. Maledizione, Duun…)

Forse Duun sorrise. Sul fianco ferito della sua faccia questi movimenti mimici erano ambigui, e difficili da capire: forse era stata una smorfia. — Giusto ora — disse — siamo in rotta verso Gatog. Manca ancora un po’. Non possiamo fermarci, naturalmente. Ma questo non è un problema grave. C’è una nave mineraria che è già partita per trovarsi sulla nostra rotta fra qualche settimana: un semplice intervento di salvataggio. Se non succede niente. Ci stiamo nuovendo molto lentamente. I nostri nemici ci stanno inseguendo a una velocità dieci volte superiore. Non abbiamo armi. Le loro navi sì. Fortunatamente anche i nostri amici le hanno. È una faccenda molto delicata, pesciolino, di ora in ora. Una nave consuma carburante; così pure l’avversario. Ogni mossa cambia punto e tempo d’intercettazione. Noi siamo la sola unità fissa, perché non possiamo manovrare, non più di un pianeta o di una luna. Siamo alla deriva. E ora dopo ora, quelle navi bruciano un po’ del loro carburante, fanno i loro calcoli, scoprono quello che sta facendo il nemico, rifanno i calcoli, manovrano, ne bruciano ancora un po’. Sempre più veloci. Dipende da quanto gli equipaggi sono disposti a rischiare la morte, e dalla causa a cui si sono votati. Per il più vicino dei nostri amici, la terra è prossima al punto di non ritorno; le loro navi non sono state costruite per atterrare, e se consumano troppo carburante non possono fare i necessari cambiamenti vettoriali per tornare: il pozzo gravitazionale è come una discesa insidiosa, e una nave che consuma tutto quello che ha, rischia di finirci irrimediabilmente dentro. Per i nostri nemici, il punto di non ritorno è l’infinito… o qualche stella distante centinaia di anni luce. E qualcuno potrebbe eventualmente andarli a prendere. Non è necessario che siano tanto coraggiosi. O tanto cauti.