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— Cosa faranno i nostri amici?

— Alcuni di loro sono hatani.

— Dunque faranno quello che devono fare. — La casa della Corporazione. La risata che non aveva più un suono crudele, ma innocente e coraggioso. (Allora non sapevano di correre un pericolo così imminente. Anche gli hatani non erano riusciti a leggerlo. Avevano visto il ghota; sapevano che era giunto il pericolo, ma non potevano conoscerlo per intero.) — Sono armati?

— Sì.

Thorn guardò quegli uomini che lavoravano incessantemente, che parlavano calmi alla radio e che qualche volta scherzavano fra loro o facevano cose bizzarre; come buttare un boccone di cibo a qualche compagno che lo afferrava al volo. — Sono uomini coraggiosi — disse Thorn, come se stesse ai piedi di una grande montagna. Era un sentimento di riverenza che gli dava una quiete interiore. Pensò a Manan e al secondo pilota, all’aereo che correva davanti alla tempesta poi scatenata dalla navetta. Pensò inoltre alla donna del portello, che li chiudeva dentro rimanendo in un mondo prossimo a frantumarsi.

E Sagot che gli diceva addio con un bacio.

E Tangan che accettava il tradimento di un vecchio allievo, e accoglieva con gentilezza un nuovo ragazzo.

Le lacrime gli riempirono gli occhi, se le asciugò e si accorse che Duun lo guardava. — Mi dispiace, Duun. Non so perché lo faccio.

— Non sai che io non posso? — chiese Duun.

Thorn lo fissò, con le lacrime che gli si asciugavano sulla faccia.

— Duun — disse Weig. E Duun andò a vedere cosa voleva Weig.

— Mancano venti ore — aggiunse Weig.

Si allenò a indossare la tuta. — Se siamo colpiti, almeno avremo qualche possibilità — disse Duun, aprendo l’armadio su un lato del ponte, dove erano allineate una dopo l’altra le tute, come embrioni in un grembo. Duun ne tirò fuori una e gliela mostrò, completamente slacciata. — Provala.

Thorn si tirò su il kilt e infilò i piedi e le braccia nella tuta. Duun gli mostrò come allacciarla, poi glielo fece rifare molte volte, fino a quando le mani non gli fecero male. Duun gli mostrò come lo zaino s’infilava nello schienale del sedile, e come un meccanismo automatico avrebbe abbassato il casco, portandolo a portata di mano. — Così non dovrai tenertelo addosso per ore — disse Duun, e gli mostrò le valvole dell’aria del circuito d’emergenza della navetta, e come staccarle e usare lo zaino. — Prima il casco, poi stacchi i tubi e hai aria a sufficienza nella tuta per arrivare allo zaino e metterlo in funzione. — Duun gli fece provare e riprovare tutto quanto, finché non fu esausto.

— Dormi un po’ — disse alla fine. — Ne avrai bisogno.

Thorn rimase esterrefatto vedendo Duun addormentarsi subito, ancorato alla sua cuccetta, nella loro cabina; e ancor più lo era che potessero farlo lì di sopra, con tutta l’attività e la luce. Ghindi e Spart si agganciarono in un angolo, vicino agli armadi, e si fecero un rapido sonnellino, mentre Weig e Mogannen si dedicavano ai calcoli. Thorn si agganciò vicino a Duun e cercò di dormire; riuscì alla fine a riposarsi; ma nel dormiveglia continuarono ad apparirgli davanti l’aereo, il volo e Betan.

Al risveglio si sganciò e salì sul ponte; trovò Ghindi e Spart al lavoro, e gli altri due addormentati. Il computer ticchettava. Thorn si avvicinò silenziosamente dall’alto, sospeso a testa in giù sul posto di Ghindi, un po’ indietro, in modo da poter vedere lo schermo.

Ghindi si girò sulla poltrona e alzò lo sguardo. Aveva l’espressione tipica di quelli che lo guardavano da vicino; poi venne sostituita da un’altra, che Thorn non riuscì a comprendere bene. Stanchezza. Tristezza. O era amore? Non aveva senso. Thorn girò su se stesso, e si arrestò con la mano. Forse sarebbe riuscito a decifrare meglio l’espressione della donna dal diritto.

— Scusa — disse Thorn, intendendo dire che temeva di disturbarla. Voleva tornare di sotto, prima che Duun lo scoprisse.

Lei lo guardò, stupita. Erano tutti e due stanchi, e un po’ confusi. Non riuscivano a capirsi molto bene. — Ti faremo arrivare — disse lei.

(A Gatog?) Thorn era impaurito. Lo mostrò, come un bambino. Nasconderlo, gli sarebbe sembrato disonesto verso Ghindi. — Sei kosan? — chiese. Si ricordava dei piloti.

— Tanun. — La Corporazione dei naviganti. Gli parve appropriata.

— Ghindi — disse Spart, dal computer. — La Kandurn ha acceso di nuovo i razzi.

Ghindi si voltò, come se Thorn fosse improvvisamente sparito dall’universo.

— Ci resta poco tempo, vero?

— Davvero poco. Credo che sia meglio svegliare Weig e Mogannen.

Thorn si voltò, trovò un appoggio per il piede e si spinse verso il portello, lo attraversò penetrando nella penombra, si girò nell’aria e si fermò contro una parete. — Duun. Stanno svegliando l’equipaggio. Pare che ci resti poco tempo.

Duun si mosse e lo guardò. — Quanto?

— Non lo so. So solo che è molto meno di quello che avevamo: erano quaranta minuti, e adesso hanno acceso di nuovo i razzi.

Duun si spinse, e schizzò come un nuotatore verso la luce. Thorn lo segui.

Mogannen e Weig si stavano infilando le tute. C’erano tre poltroncine di riserva; Duun preparò le due che erano destinate a loro quando erano sul ponte. — In caso la faccenda si metta male — disse. — Adesso mettiti la tuta.

Tutto con molta calma. Sul ponte le cose continuarono sempre: la solita routine; solo che adesso indossavano le tute. Spart e Ghindi cominciarono il loro turno. Duun galleggiava, con la tuta, senza casco. L’attesa divenne noia. Il cuore di Thorn, che prima batteva per il panico, non poté reggere a lungo. Il panico si trasformò in fastidio. Voleva bere. Se l’avesse fatto, se ne sarebbe pentito? Fra questi piccoli fastidi passavano i momenti peggiori. Pensieri di pruriti inaccessibili. Il sudore dentro la tuta, che si raccoglieva senza evaporare. Thorn era sospeso nell’aria, in un lento strisciare del tempo, con il ronzio dei messaggi in arrivo che volevano ucciderlo. Le navi avevano cominciato a spingersi troppo oltre. Voci calme riportavano i fatti, chiamandoli con nomi come ritorno-zero e non-virata.

(È strano, ma non si vedono molto le stelle. Si possono vedere dalla navetta, se si va davanti… È bellissimo.)

Una stella si accese, mentre Thorn guardava, divenendo sempre più luminosa. Il suo cuore batté all’impazzata. — Duun! Weig! — Poi la stella cominciò a trasformarsi in una sfera.

— Al tuo posto! — gridò Duun, e schizzò anche lui da quella parte. Thorn si tuffò, afferrò lo schienale di una poltroncina, e s’infilò dentro tenendosi al bracciolo, prese le cinture arrotolate e cominciò a legarle. Guardò davanti a loro, dove la stella era svanita. — Dov’è? — Non si erano girati, non potevano: la navetta non aveva più combustibile.