Выбрать главу

(Possibile che il silenzio abbia tanto valore qui, a tanta distanza dalla terra?)

Le luci splendevano contro le stelle, bianche e oro; qui un gruppo, e più lontano un altro.

— Fra cinque minuti freniamo — disse Ivogi. — Andare a poppa — aggiunse Duun. La Deva non aveva posti a sufficienza per tutti. Dovettero così sistemarsi alla meno peggio in uno spazio ristretto, quello riservato appunto ai passeggeri durante le manovre; non c’erano oblò, solo imbottitura. Thorn andò con gli altri, Duun no.

Ma Duun venne da lui, dopo l’accensione dei razzi. — Dobbiamo metterci le tute per il trasbordo — disse.

Era un posto freddo, la Deva. Era grigia, e odorava di metallo gelido, di materiale elettrico, dei loro corpi e del loro cibo. La Deva era però un luogo conosciuto, e Thorn la guardò, mentre si allacciava la tuta. Guardava la Deva e pensava ai boschi di Sheon, e alla terra. La sua mente balzava dall’uno all’altro posto. E da lì alle luci splendenti.

(Duun, ho paura. Rivoglio il mondo, Duun, Voglio tornare a casa. Lì conoscevo ciò che mi circondava; ma passo da una cosa all’altra, e tu cambi, Duun, ti allontani da me, parli con Weig, parli con Ivogi, parli una lingua che non capisco, e hai perso l’interesse per me. Ti allontani sempre più.)

(Non guardarmi in quel modo. Non pensare di lasciarmi. Ti leggo dentro, Duun, e mi spaventi.)

— Addio — disse Ivogi, e il portello della Deva li espulse, impersonalmente come li aveva accolti.

La mano di Thorn stringeva il razzo di manovra, in quel buio implacabile. Galleggiava. I suoi occhi si muovevano freneticamente da una luce all’altra… un grande disco sospeso, grande come un edificio, o vicinissimo a loro; i suoi occhi rifiutavano di registrare la giusta prospettiva. Una rete metallica si stendeva sottilissima nel vuoto, punteggiata di luci. — Gatog — disse Duun, con una voce resa strana dalla radio. — Questo è il grande orecchio. È adibito all’ascolto. Ce n’è un altro, dall’altra parte del sistema solare, nell’orbita di Dothog.

(Cosa ascolta?) Ma Thorn non poté porre la domanda. La sua anima era intorpidita, scossa da troppe risposte. Duun lo trascinò con sé, indirizzandolo verso un altro giù, con un cambio di prospettiva talmente brusco che il suo senso dell’equilibrio gli lanciò messaggi di terrore. Un pozzo enorme si apriva davanti a loro, tutto illuminato di verde, e scendeva lungo un grande asse roteante fino a un nucleo; visto da lì, sembrava il mozzo di un’immensa ruota.

Un altro giro, e vide Weig e gli altri con le spalle rivolte a loro e le facce verso una grande impalcatura che imprigionava qualcosa da cui le luci non riuscivano a eliminare completamente il buio… pareva più antico delle travi scintillanti che lo circondavano: un cilindro di metallo, non più lucido.

— Quella è una nave — disse Duun. — La nave.

Thorn non disse nulla. Era lì sospeso, perso, tenuto solo dalla mano di Duun. Non desiderava più essere dentro, a qualsiasi posto, avrebbe quasi preferito restarsene sospeso lì per sempre, nella luce dei fari. (È questo il posto? È questo ciò che vale tanto? Andrò oltre questo punto, oppure siamo arrivati alla fine? Duun, Duun, è questa la tua soluzione?)

Duun lo teneva per mano, e si tuffò giù (o su) nel pozzo, che era verde come le foglie di Sheon. Le pareti ruotavano attorno a loro.

Nel cuore del pozzo, c’era un portello da cui sbocciava una luce dorata. Entrarono, seguiti da Weig e dagli altri.

Il portello si chiuse e loro entrarono in un’altra camera, dove c’erano parecchi pali metallici e un cartello che diceva dov’era il basso. Duun afferrò un palo, tenendo stretto Thorn. Mogannen e Ghindi fecero lo stesso; Spart e Weig ne presero un altro; ci fu allora una scossa violenta che li fece ondeggiare, poi salire.

— Tienti stretto — disse Duun, quando Thorn afferrò il palo. — Lo farà un’altra volta. Siamo diretti verso la parte esterna.

Era come una nave che si muovesse; il basso cominciò a sembrare di fianco, in maniera allarmante, e il cilindro cambiò lentamente inclinazione; poi la porta s’aprì.

C’erano attendenti, uomini e donne con normali kilt, tutti bianchi; Duun si tolse il casco, e Thorn fece altrettanto, insieme agli altri.

(Guardate bene. Guardatemi.) Thorn evitò di fissarli negli occhi, e porse il casco a una donna. — Sey Duun — disse un uomo — vorrebbero vederti in ufficio.

— Dovranno venire da me — replicò Duun. Si tolse la tuta, si sedette e si levò gli stivali. Un attendente fece per toccare i bagagli, ma Thorn glielo impedì mettendo un piede sulla cinghia. L’attendente cambiò idea e Duun sorrise, col suo sorriso storto. Ben fatto. Nonostante il lungo viaggio, Thorn sapeva cosa fare, anche se si trattava di una cosa marginale. Non toccarono né lui né Duun, e non posarono le mani sui bagagli.

Weig e i suoi uomini li salutarono. — Duun-hatani — disse Weig, e nient’altro. Pareva commosso. — Weig-tanun — esclamò Duun, sorridendo di sbieco. — Vieni a cercarmi, se qualcosa non va. Non tutte le mie soluzioni sono così maledettamente complicate.

— Me ne ricorderò — aggiunse Weig, e condusse via i suoi. Ghindi si voltò a guardare, e Thorm fece altrettanto.

— Vieni — disse Duun, alzandosi. La loro porta era un’altra, più stretta.

(Tubi. Il luogo roteante. Tubi e gente come me…)

Ma non c’era gente come lui. Thorn raccolse i bagagli e seguì Duun lungo un corridoio deserto, che si curvava verso l’alto, e che li portò in un’altra stanza.

Ad attenderli c’erano tre hatani. Thorn vide i loro mantelli grigi e provò un profondo sollievo. — Tagot, Desuuran, Egin — disse Duun. — Haras.

Si scambiarono i saluti. Thorn s’inchinò e guardò quelle facce caute di hatani, che non lasciavano minimamente trapelare le loro passioni. Stringeva i bagagli con mani a cui aderivano ancora gli ultimi frammenti di gelatina, ed era come se si trovasse battuto dai venti di sentimenti altrui, di paure altrui, di necessità altrui… e scoprì una calma improvvisa.

— Ci riposeremo — disse Duun.

— Duun-hatani. Haras. — Tagot s’incamminò davanti a loro per mostrargli la strada, gli altri due hatani dietro. L’ordine era stato stabilito con il più piccolo dei segnali: non c’era alcun dubbio che Duun permetteva ai due hatani di camminare alle sue spalle. Thorn era scarmigliato, con la ferita sul ginocchio di nuovo aperta, le cicatrici rosse delle bruciature sulle mani e i capelli lunghi, che gli cadevano sugli occhi; ma anche Duun era coperto di cicatrici e la sua pelliccia argentea era macchiata di sudore, sulle spalle e sul fondo della schiena.

(Abbiamo trovato un posto, finalmente? Qui ci sono degli hatani. È un posto da cui non verremo scacciati, questo?)

Superarono delle porte, scesero due piani con un ascensore e camminarono lungo un corridoio curvo, che avrebbe potuto essere quello di una torre in città, visto attraverso uno specchio distorto.

Aprirono una porta; in una piccola anticamera li aspettava un hatani che aprì, a sua volta, una porta su una grande stanza con il pavimento nudo, su cui dovevano camminare come se fosse un unico rialzo, con sopra altri rialzi. Le pareti erano nude e bianche. Un anziano hatani li aspettava. — Le vostre stanze sono sicure — disse, e uscì, silenzioso, avendo detto tutto ciò che vi era da dire.